Nell’immaginario, il serial killer delle coppie (otto omicidi e 16 morti) è Pietro Pacciani. Ma il mistero di Firenze è lontano dall’essere chiarito. In realtà, numerosi indizi, e soprattutto un dossier mai preso in considerazione sulla famosa Beretta 22, portano ad altre piste. Tanto che i legali di alcuni parenti delle vittime ora chiedono la riapertura delle indagini.
«Il nome del Mostro è nelle carte depositate in Procura. Ma non è quello che tutti credono». Esordisce così Paolo Cochi, consulente dei familiari di alcune delle vittime del Mostro di Firenze. «Bisogna insistere sui dati scientifici e sulle testimonianze acquisite di recente, estendendo le indagini anche sui sospettati non verificati. Ci sono documenti e reperti importanti negli archivi. Dopo tanti anni è necessario rivedere tutta la documentazione. Fare un esame ampio e capillare. Indagare». Indagare per fare luce su una delle vicende di cronaca nera più inquietanti, note e studiate del nostro Paese: quella del serial killer delle coppie di Firenze. Una vicenda che ancora non può dirsi chiusa e su cui, non a caso, i legali Vieri Adriani, Antonio Mazzeo e Valter Biscotti, che assistono le famiglie, stanno procedendo alla richiesta di revisione.
Tante lacune. Tante domande senza risposta. Troppe coincidenze che, secondo molti, non possono dirsi fortuite. Una sorta di storia-mondo durata un ventennio durante i quali il più noto omicida seriale italiano ha commesso otto duplici omicidi. Sedici vite spezzate. Eppure, a distanza di così tanto tempo, la vicenda continua a rivelare segreti e inquietanti elementi. Come quelli contenuti nel baule di Pia Rontini – la vittima più giovane, uccisa nel 1984 – ritrovato i primi dell’agosto scorso e riaperto dalla polizia scientifica della Questura di Firenze coordinata dal procuratore aggiunto Beatrice Giunti e dal sostituto Ornella Galeotti.
Ma anche le 17 fotografie, ritenute molto importanti al fine dell’inchiesta per datare concretamente l’omicidio, impresse sul rullino di una macchina fotografica appartenuta a Nadine Mariot e Jean Micheal Kraveichvili, assassinati dentro una tenda nel famigerato bosco degli Scopeti nel 1985. I rullini furono trovati sulla scena del delitto e non sono mai stati visti da nessuno, come denunciano proprio gli avvocati Adriani, Mazzeo e Biscotti. L’unica certezza è l’arma: una Beretta calibro 22, impugnata dalla mano omicida di un uomo che nel corso del tempo è finito con il condizionare film, documentari, libri. E, soprattutto, la memoria collettiva che è stata plasmata – e non solo in Centro Italia – dal terrore di un agguato del Mostro.
Parallele hanno preso forma teorie di ogni tipo sulla sua reale identità. «L’intera l’opinione pubblica ritiene che il mostro sia Pietro Pacciani» spiega Cochi. «Eppure tecnicamente lui è morto come imputato, non come condannato». Dopo la condanna in primo grado all’ergastolo nel 1994, Pacciani venne assolto in appello nel 1996 per non aver commesso il fatto (particolare da non trascurare: fu lo stesso procuratore del processo in secondo grado a chiedere l’assoluzione). Successivamente però, il 12 dicembre 1996, la Cassazione annullò l’assoluzione e dispose un nuovo processo d’appello (per via, altro aspetto importante, di un vizio di forma e non di sostanza). Che non venne mai celebrato a causa della morte di Pacciani – avvenuta secondo molti in condizioni non del tutto chiarite – il 22 febbraio 1998. Diversa la sorte dei cosiddetti «compagni di merende» Mario Vanni e Giancarlo Lotti, cui si aggiunge Fernando Pucci – indicato come guardone – per i quali le condanne diventarono definitive nel 2000.
«La verità è lontanissima. La mia sensazione è che con quei processi si è volutamente e forzatamente scelto di chiudere una brutta pagina» riflette l’avvocato Biscotti che con Mazzeo assiste nel procedimento di revisione Paolo Vanni, nipote di Mario. A supportare la nuova richiesta di indagini, questa volta emergono elementi inediti e oggettivi. È ancora Cochi a parlare: «Il caso su cui sono emersi maggiori spunti di indagine è sicuramente l’ultimo, quello del settembre 1985, giorno in cui sono morti i due francesi». I documenti relativi alla loro vicenda indicano come gli esami sulla scena del crimine abbiano permesso di individuare tracce di sangue riconducibili alla donna, ma anche «tracce di verosimile origine epiteliale dentro la fodera di un paio di pantaloni marca Maman taglia 44, da cui è stato possibile determinare un parziale profilo genetico attribuito a “Uomo Sconosciuto 1”». Non solo. Altri indizi finora sottovalutati sono le tre lettere di minaccia inviate ai tre magistrati che si occuparono delle indagini: anche qui ci sono tracce di Dna (il famoso Reperto 80 individuato dal genetista Ugo Ricci) comparabile ed estremamente significativo ai fini delle indagini, e che potrebbe essere la «chiave» di volta dell’intero caso.
Il dettaglio non è di poco conto. Puntualizza Cochi: «Queste tracce sono state comparate con tutti i personaggi avvicinati al Mostro, da Pacciani ad altri sospettati. Non corrispondono ad alcuno. Per cui, ad excludendum, ciò spiegherebbe il fatto che nessuno di loro è il serial killer». Allora a chi potrebbero appartenere? Difficile dirlo. Ma una pista, incredibilmente mai battuta, esiste. Sono state le difese dei familiari delle vittime rimaste senza colpevoli a farla emergere. Tutto riporta al 1984, quando i Carabinieri della compagnia di Borgo San Lorenzo, nel Mugello (luogo di ben due duplici omicidi), scrivono un’informativa, la numero 279/27, in cui evidenziano come il 5 febbraio 1965 fosse stata rubata una Beretta calibro 22 presso un’armeria del paese. I militari notano che quell’arma trafugata può essere «messa in relazione alle indagini relative alla serie dei duplici omicidi che da anni vengono perpetrati nella provincia di Firenze». Nel rapporto indicano le generalità dell’autore del furto: un uomo che fino a metà degli anni Sessanta risiedeva nel Mugello e poi si era trasferito a Firenze.
Ma c’è di più: nell’informativa si legge che la persona era stata anche denunciata dall’Arma di Firenze Rifredi alla Procura della Repubblica «per reati contro la libertà sessuale». E che nel giugno 1966 – durante le indagini proprio per il furto all’armeria – aveva subìto una perquisizione durante la quale furono trovate armi e munizioni, nonché due cartucce e dieci bossoli calibro 22. Reperti che purtroppo non è stato possibile rintracciare. «La cosa davvero strana» aggiunge Cochi «è che questa persona non sia mai stata inserita nella famosa lista dei sospettati creata e redatta dalla Squadra Anti-Mostro. Di fatto non è mai stata presa in considerazione».
Il dubbio di legali e difese, in altre parole, è che il Dna rintracciato sulla scena del crimine della coppia francese e sulle buste delle lettere corrisponda all’uomo dell’informativa del 1984. Le generalità del presunto assassino sono state rese note agli inquirenti più di due anni fa, ma alle richieste di nuove indagini non è seguita apparentemente alcuna novità. Almeno finora. Alle iniziali domande di accesso agli atti, la Procura di Firenze si era addirittura opposta e, una volta consultati gli atti, agli avvocati questi erano parsi gravemente lacunosi. Ora, però, le indagini sono passate in mano alle dottoresse Giunta e Galeotti (pm, quest’ultima, di un altro caso inquietante, quello del Forteto) e pare che l’attenzione sia notevolmente diversa. La partita, dunque, è aperta più che mai. Negli anni le piste seguite sono state molteplici, spesso fantasiose. Dopo quella sarda, proseguita per oltre sette anni, archiviata anche la possibile paternità dei delitti di Zodiac – noto serial killer americano, che in molti avevano indicato essere il direttore del Cimitero americano di Firenze dell’epoca – il mistero non accenna a esaurirsi. «Noi non ce l’abbiamo con alcun magistrato, sia chiaro» afferma Biscotti, «ma siamo convinti che spesso le indagini si facciano vincere da una certa ostinazione per cui ci si innamora di una tesi piuttosto che di un’altra». A distanza di così tanti anni, però, è ancora possibile illuminare la vicenda. «Ora le nuove tecnologie possono risolvere alcuni misteri, a cominciare dall’esame del Dna di “Sconosciuto 1” e “Reperto 80”», conclude l’avvocato. Misteri che ruotano anche e soprattutto attorno a quel dossier del 1984 (sulla Beretta 22) che, nonostante la segnalazione dei Carabinieri, pare non sia mai stato preso in considerazione dalla Procura. Le indagini, forse, stabiliranno il perché.