Voli sperimentali di vettori plananti ipersonici, capaci di eludere le difese americane. Gigantesche basi missilistiche. L’obiettivo del migliaio di testate nel 2030. Il regime di Pechino punta a raggiungere un nuovo assetto atomico. Che garantisca il suo espansionismo.
Il missile Chang Zheng 2C è un vettore alto 42 metri il cui nome in cinese significa «Lunga Marcia», in omaggio alle virtù militari di Mao Zedong. Poche settimane fa, un Chang Zheng 2C è decollato senza alcun preavviso da una base nel centro della Repubblica popolare. Una volta in orbita, ha rilasciato un secondo, misterioso missile in grado di viaggiare cinque volte la velocità del suono.
Questo «veicolo» mai visto ha fatto un giro completo attorno alla Terra seguendo un’orbita bassa, ai limiti dell’atmosfera. Quindi ha puntato il muso verso il basso, mirando un punto preciso della Cina e distruggendosi nell’impatto. È accaduto poche settimane fa, allarmando non poco i servizi segreti occidentali. Fonti del Pentagono sostengono che il veicolo ipersonico avrebbe «mancato il suo obiettivo» di 32 chilometri, e la frase ha lasciato intendere al mondo che si fosse chiaramente trattato di un «veicolo» militare.
Oggi gli analisti statunitensi della Cia e della National security agency ritengono che l’esercito cinese con quel lancio abbia testato un nuovo, pericoloso sistema d’attacco nucleare: i movimenti del missile ipersonico infatti hanno mostrato la sua grande manovrabilità e soprattutto la capacità di viaggiare su traiettorie che evitano i siti di difesa missilistica americani. Per dirla in parole semplici: virando e planando, quel missile-trasportato-da-un-missile potrebbe colpire indisturbato qualsiasi obiettivo. Taylor Fravel, esperto di armi nucleari al Massachusetts institute of technology e tra i massimi tecnici mondiali della materia, conferma che «un velivolo planante ipersonico armato con una testata nucleare potrebbe essere destabilizzante, in quanto in grado di eludere i sistemi di difesa missilistica degli Stati Uniti».
Il misterioso lancio cinese è l’ultima mossa della nuova Guerra fredda tra Washington e Pechino. Una competizione che ricorda sempre più quello che negli anni Settanta e Ottanta fu la gara tecnologico-militare tra Stati Uniti e Unione sovietica. Anche l’armamentario è lo stesso: missili sempre nuovi, lanci sperimentali, postazioni di lancio che cambiano e si aggiungono continuamente. E, soprattutto, la corsa a riempire gli arsenali di testate nucleari. Nell’ultimo Military and security developments involving the People’s Republic of China, il report che il dipartimento americano della Difesa ha appena consegnato al Congresso, si legge che l’Esercito popolare di liberazione cinese intende dotarsi di almeno 750 nuovi ordigni da qui al 2027, per superare la soglia delle mille testate nucleari nel 2030.
Esattamente quel numero simbolico, mille, era stato annunciato 18 mesi fa dal Global Times, il quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese. Il 7 maggio 2020, il suo direttore Hu Xijin aveva scritto che il governo di Pechino avrebbe dovuto «aumentare il numero di testate nucleari fino a mille» e dotarsi di «almeno 100 nuovi missili balistici». L’invito non aveva capacità profetiche: da anni il Global Times viene considerato il megafono con cui il presidente-dittatore Xi Jinping proclama il suo verbo al mondo. E le frequenti minacce belliche che compaiono sul giornale vengono analizzate, compulsate, decrittate in ogni particolare da tutte le centrali dell’intelligence occidentale.
Anche l’ultima accelerazione del militarismo cinese, per esempio, era stata preannunciata da un editoriale dell’11 settembre 2020, data peraltro simbolicamente infausta per gli Stati Uniti: quel giorno, Hu Xijin aveva scritto serafico sulla prima pagina del quotidiano di regime che «la Cina deve avere il coraggio d’impegnarsi in una guerra tesa a proteggere i suoi interessi fondamentali, e deve essere anche pronta a sostenerne il costo».
È evidente che anche questa nuova Guerra fredda, proprio come accadeva alla prima, è fatta di propaganda e disinformazione. Spesso con effetti paradossali. Negli ultimi giorni, sempre l’instancabile Global Times ha rivelato al mondo che la corsa cinese al nucleare è collegata alle continue e crescenti minacce che il regime di Pechino da mesi manifesta verso l’indipendenza di Taiwan: la Cina libera che Xi Jinping vuole assolutamente riportare sotto il suo dominio. «C’è la seria possibilità di una guerra nello stretto di Taiwan», ha scritto lo scorso 18 novembre Hu Xijin, «e gli Stati Uniti hanno lasciato intendere di essere pronti all’intervento militare…». Insomma, gli americani vogliono difendere Taiwan dalle minacce cinesi, e Xijin ne conclude sia inevitabile che la Cina debba dotarsi di «una deterrenza nucleare pienamente efficace, per escludere la possibilità che gli Stati Uniti esercitino un ricatto nucleare contro di noi in un momento critico».
È la classica giustificazione di ogni corsa agli armamenti. Ma sembra quasi di ascoltare il lupo che, nella favola di Fedro, parla all’agnello prima di mangiarlo. Intanto, i segnali del riarmo cinese sono sempre più frequenti. Lo scorso agosto l’Us Strategic Command, cui fa capo l’arsenale nucleare americano, ha fornito al Congresso le inquietanti foto satellitari di due siti missilistici che Pechino starebbe costruendo, per ospitarvi in totale almeno 230 silos destinati a vettori nucleari: il primo sito è vicino alla città di Hami, nel nord-ovest della Cina, il secondo è ubicato a Yumen, nel cuore della Repubblica popolare.
I due impianti, ciascuno dei quali misura circa 800 chilometri quadrati (per intenderci, una misura quattro volte superiore all’area urbana di Milano) secondo il Pentagono ospiteranno soprattutto i nuovi DF-5, missili di 33 metri d’altezza capaci di lanciare testate multiple in un raggio di 13 mila chilometri, e in grado di raggiungere ogni punto degli Stati Uniti e dell’Europa.
La spesa militare cinese, del resto, è quella che negli ultimi anni ha subìto gli incrementi maggiori. Lo Stockolm international peace research institute stima che nel 2020 sia cresciuta dell’1,9 per cento e nel 2021 si impennerà addirittura del 6,8 per cento per superare la cifra record di 261 miliardi di dollari. È una potente spinta alla modernizzazione in tutti i settori militari, ma gli analisti svedesi sottolineano che tra il 2020 e la prima metà del 2021 la Cina soprattutto ha accresciuto il suo arsenale nucleare, portandolo da 320 a 350 testate: può sembrare poco, rispetto alle 5.550 testate degli Usa e alle 6.255 della Russia, ma va detto che il confronto oggi non si gioca più sui numeri, come accadeva nella prima Guerra fredda, bensì sull’evoluzione tecnologica dei vettori e sulla loro velocità e manovrabilità.
È proprio di questo che si preoccupa il Pentagono. Una delle punte di diamante dell’arsenale cinese è appunto il missile DF-17 (DF sta per Dong Feng, cioè «vento dell’Est»), esibito la prima volta nella roboante parata che il 1° ottobre 2019 ha celebrato il settantesimo anniversario della Repubblica popolare.
Il DF-17 è un vettore balistico a planata ipersonica: esce dall’atmosfera per farvi rientro allo scopo di acquisire altissime velocità. Supera infatti i 6 mila chilometri all’ora e ha una gittata superiore ai 2.500 chilometri. Da un anno è in dotazione alle brigate missilistiche del Guangdong, proprio di fronte a Taiwan.
