Home » Il libro nero che fa tremare la Juventus

Il libro nero che fa tremare la Juventus

Il libro nero che fa tremare la Juventus

Doveva essere un elenco di «criticità» a uso interno, della società, ma è diventato un faro sul sistematico «doping» finanziario della squadra più blasonata. Un foglio A4 che presto porterà a giudizio una grossa fetta di indagati eccellenti.


I quotidiani sportivi lo hanno liquidato come un banale «foglio A4» con una «serie di appunti scritti a penna». Il manoscritto che Panorama per la prima volta mostra integralmente, in realtà, è stato intitolato «Libro nero» da chi lo ha vergato con pennarello nero su foglio bianco. E il concetto, già di per sé molto esplicito, è stato accompagnato da due iniziali: una «F» e una «P».

Il foglio A4 era nel cassetto della scrivania dell’attuale direttore sportivo della Juventus sport club Federico Cherubini e scritto su carta intestata della squadra. Racconta come all’interno della società ci fosse consapevolezza della gestione, che la Procura di Torino descrive come «disinvolta», messa in campo dai vertici del club e, in particolare, all’uomo al quale si riferisce il manoscritto: Fabio Paratici, già calciatore di Serie C, poi direttore sportivo dei bianconeri e ora direttore generale del Tottenham. Sentito dai magistrati torinesi Cherubini riconosce la paternità del testo, scritto «a marzo-aprile 2021 nel momento in cui», spiega Cherubini, «sono andato a discutere con Fabio il mio rinnovo contrattuale». Ed è in quel momento che Cherubini svela che, dopo nove anni in bianconero, per la prima volta, aveva pensato di mollare. Di andarsene. Di lasciare la squadra. «La stagione», ha spiegato Cherubini ai magistrati, «anche dal punto di vista sportivo era deludente; io mi sono detto anche per fedeltà di provare ad andare avanti ma con patti chiari».

Quindi a un certo punto si è seduto alla scrivania e ha annotato quelle che riteneva delle criticità. E che, diabolica coincidenza, in parte ricalcano le accuse che la Procura muove all’ex presidente Andrea Agnelli e al suo board: plusvalenze «artificiali», con lo scambio di giocatori, anche giovanissimi, a prezzi ritenuti gonfiati per camuffare «l’allarmante situazione economica, patrimoniale e finanziaria» che, secondo l’accusa, stava vivendo il club. Queste «criticità», racconta Cherubini ai pm, «io le ho suddivise in Gestione, Strategia, Rapporti e Comportamenti». Un titolo per ognuno dei quattro paragrafi. Se il primo è legato a questioni organizzative, è sul secondo che si concentra l’attenzione degli inquirenti. I quali chiedono conto all’autore di una voce in particolare: «Utilizzo eccessivo plusvalenze artificiali». Ma ottengono risposte, a detta loro, «connotate da reticenza».

Ora il giudice che ha negato l’arresto di Agnelli quelle plusvalenze le ha liquidate con un «così fan tutte», riferendosi alla pessima abitudine di molti club italiani di raddrizzare le pieghe dei bilanci pompando le plusvalenze. Poco, deve aver valutato il giudice, per privare un manager della libertà personale. Ma che restano una delle questioni centrali per la Procura di Torino che, dopo aver chiuso le indagini preliminari un mese fa, ha chiesto il rinvio a giudizio per molti degli indagati. Anche per la storia delle plusvalenze artificiali che, stando alle stime dei consulenti scelti dai magistrati per sbrogliare i bilanci juventini, ammonterebbero a ben 155 milioni di euro. Ma le accuse vanno dalle false comunicazioni sociali alla manipolazione del mercato, alle dichiarazioni fraudolente con utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, fino all’ostacolo alle autorità di vigilanza.

E ci sarebbe anche da chiarire un giro di denaro di cui non sarebbe stata trovata traccia nei bilanci: debiti extra per decine di milioni sulla compravendita dei calciatori, compresi i 19 milioni da restituire a Cristiano Ronaldo sulla base dell’ormai famosa «carta segreta (mai trovata dagli inquirenti che, però, sono convinti di avere ricostruito nei suoi contenuti essenziali, ndr)». Cherubini sulle plusvalenze sente di avere una netta «differenza di vedute» con Paratici. «Per me» spiega «un’operazione giusta, corretta, sana, è quella derivante da un ragazzo del vivaio, che non ha carico di ammortamento, che viene valorizzato e ceduto». I pm però lo incalzano: «Perché allora non usa il termine “non maturato” e utilizza quello “artificiale”?». La risposta è vaga: «Io utilizzo il termine artificiale perché c’era un’attività sana a cui però corrispondevano anche obiettivi che venivano dati alla parte sportiva dall’area Finance».

Poi, spiegando alcune intercettazioni che lo riguardano aggiunge: «La differenza tra una plusvalenza bella, cash, e una plusvalenza finta è chiara; se io per cedere un giocatore ne acquisto un altro, beneficio della plusvalenza nell’immediato ma poi mi carico degli ammortamenti. È diverso il caso della plusvalenza cash, in cui l’interlocutore arriva con 50 milioni e finisce lì. Se invece la trattativa, per esigenze di mercato e di bilancio, e di crisi di liquidità, l’operazione va in direzioni differenti è diverso». È proprio quello che sospettano i magistrati. Infatti arriva la domanda che porta l’indagato a chiamare in causa tutta la dirigenza, compreso il presidente Agnelli: «Che cosa intende per plusvalenza finta? Chi le ha detto di smettere di fare le plusvalenze finte?». Il ds juventino se ne esce così: «La plusvalenza finta ritengo che sia quella maturata nell’ambito di operazioni a scambio, fatte su ragazzi giovani per i quali la determinazione di un valore crea problematiche in positivo o in negativo».

Ma arriva finalmente al punto: «Io più volte mi sono lamentato con Fabio (Paratici, ndr) che il valore che stavamo dando a quei giocatori non era congruo. In riunioni avute con il resto della dirigenza, si è valutato il fatto che dovevamo andare verso un progetto tecnico diverso e che il ricorso alle plusvalenze non dovesse più essere una caratteristica della nostra gestione». Con il termine «dirigenza», Cherubini spiega di intendere «il presidente Agnelli, il vice Pavel Nedved sicuramente e poi gli altri dirigenti». Infine conclude il concetto: «L’aumento dei costi degli scorsi anni ha determinato che il ricorso alle plusvalenze fosse un asset su cui puntare per riuscire ad avere dei ricavi». E probabilmente è proprio quello che i magistrati volevano sentirsi dire. Venuto alla luce grazie a un banale «foglio A4».

© Riproduzione Riservata