Nel ritratto – falsato – che appare su molti media, l’Irlanda del Nord sarebbe ridotta alla fame per colpa dello «strappo» dal continente. A essere vuoti, però, non sono i negozi bensì i cantieri industriali: trasformati, nella furia liberista e globalizzatrice, in inutili attrazioni turistiche.
A Belfast, il minuscolo ma comodissimo aeroporto cittadino è stato dedicato a George Best, la gloria locale, il calciatore che si vantava di aver speso tutti i suoi soldi in donne, auto e alcol, e il resto di averlo solo sperperato. La vita spericolata del campione incarna alla perfezione le radici della capitale dell’Irlanda del Nord, città violenta, per decenni simbolo di terrorismo con le bombe dell’Ira, e teatro di sanguinose rivolte contro i dominatori inglesi. Appena atterrati, però, altro balza all’occhio: lo scalo è tappezzato di immensi cartelloni pubblicitari che invitano a visitare i luoghi di Game of Thrones, la serie tv-fenomeno mondiale. Lungo la strada che porta in città, all’orizzonte due giganteschi carri ponte di un giallo sgargiante: la gente del posto li ha ribattezzati Sansone e Golia. Sono le gru che già nel 1911 costruirono il Titanic, il più grande transatlantico al mondo. Belfast, per oltre un secolo, è stata il cuore dell’industria navale inglese: ospitava i più importanti cantieri di tutta la Gran Bretagna quando questa era un impero marittimo.
Oggi quell’industria pesante è quasi scomparsa e ciò che resta viene trasformato in Luna park. I «Troubles» del 1969 – gli scontri che la notte del 14 agosto di quell’anno misero a ferro e fuoco la città – sono una remota memoria: dalla guerriglia allo shopping, dai murales che inneggiavano alla Palestina alle serie tv di Netflix, la storia degli ultimi venti anni di Belfast, dalla pace del 1998, è paradigmatica. La Ue con il suo mercato unico ha trasformato la più politica, insanguinata e industriale città della Gran Bretagna, da sempre divisa tra cattolici e protestanti, tra indipendentisti e fedeli alla corona di Buckingham Palace.
Più che il famoso accordo del Venerdì Santo che mise fine al terrorismo, è stato il consumismo a pacificare l’Ulster. Dalla mattina di Capodanno, primo giorno della Gran Bretagna fuori dall’Ue, l’Irlanda del Nord sembra ripiombata ai tempi della Great Famine di metà Ottocento, la carestia durante la quale morirono un milione di persone e due milioni dovettero emigrare. Supermercati vuoti, cibo che scarseggia. Colpa della Brexit, tuonano i Savonarola di qua e di là della Manica. A pagare il conto dell’addio all’Unione sono i «poveri» irlandesi, con i supermercati vuoti.
Il giovane con lentiggini e capelli rossi che gestisce una piccola bottega di alimentari di fronte alla City Hall, il grandioso municipio in stile rinascimentale, in marmo bianco italiano, fa spallucce: «Io non ho problemi, però non tengo molti prodotti freschi». I problemi, suggerisce, forse li hanno le grandi catene: ma da Marks&Spencer, colosso dei supermercati, regna l’abbondanza. Per i media di regime, rigorosamente anglofobi, l’Irlanda del Nord sarebbe ridotta alla fame. L’Irlanda è uno dei feticci ideologici della propaganda europeista: sottomessa dagli inglesi per secoli, emblema dell’imperialismo britannico, incarnato da Oliver Cromwell che nel Seicento devastò il Paese per punirlo. Oggi per l’Europa del liberismo buonista, la nazione incarna la cattiveria della Brexit che impone un confine fisico con l’Irlanda del Nord.
Ma è bastato il virus per smascherare la contraddittoria posizione Ue: sui vaccini Bruxelles è in clamoroso ritardo. E, come ritorsione contro la casa farmaceutica inglese AstraZeneca, ha annunciato una frontiera fisica tra Dublino e Belfast, quella stessa frontiera condannata quando si tratta della Brexit. Subito è arrivata una pioggia di critiche dalla stessa Irlanda, per questo confine: imbarazzata e imbarazzante marcia indietro dalla burocrazia dell’Unione, che sventola la bandiera delle frontiere aperte solo quando fa comodo. Ecco: il problema dell’Irlanda del Nord non è la Brexit, ma la Ue…
Nel 1585, un secolo dopo il viaggio di Cristoforo Colombo, sull’isola arriva un nuovo alimento dall’America: la patata. Diventa il piatto base della gente comune per secoli. Oggi, invece, da Marks&Spencer il palato degli irlandesi è solleticato da sushi e avocado, da ananas e arance di Siviglia. Meraviglie del mercato unico: una volta, portare queste delizie fin qua sarebbe stato impossibile o troppo costoso. L’anima moderna, «gentrificata» e fragile di Belfast trova la sua apoteosi nel waterfront, il nuovo pomposo nome affibbiato ai vecchi cantieri navali. Era una zona rude e povera, popolata di malnutriti manovali che saldavano ferro, al freddo del lungo inverno del Nord. Oggi tutto è sparito e al loro posto svetta il Titanic Belfast, futuristico edificio che dietro l’aspetto storico è un’attrazione per turisti: la storia della nave da crociera declinata a videogioco.
Nell’Abercorn Basin, ex bacino navale, i nuovi edifici ospitano uno Spar, catena tedesca di alimentari. Si chiama Titanic anch’esso, come tutto qua intorno: il bancone della frutta e verdura è una cornucopia della dea natura. Dalle pere che arrivano dal Belgio ai pomodorini pachino della Spagna, fino alle fragole in pieno inverno addirittura dall’Egitto. Tutto è importato e trasportato per migliaia di chilometri: sopra il bancone frigo sono già esposte uova di cioccolata nell’inconfondibile incarto arancione della Kinder, l’italianissima Ferrero. Prodigi della globalizzazione gastronomica. La cassiera è una fan dell’Europa, ha votato «remain»: dovrebbe essere la più agguerrita nemica della Brexit che affama gli irlandesi, ma ammette candidamente che gli scaffali non sono mai stati vuoti.
Lo sono invece i cantieri: il cuore pulsante dell’industria britannica non esiste più. I chilometri di moli dove un tempo dominava la manifattura sono stati trasformati in una promenade commerciale. Il bacino navale più grande d’Europa è diventato una giostra: i vecchi uffici della Harland&Wollf, la società che progettò il Titanic, sono stati trasfigurati in un boutique hotel che offre camere di charme; al posto delle gru, dei bacini di carenaggio, svettano cinema multisala e, ovviamente, i Titanic Studios. Al posto di maleodoranti officine, lussuosi appartamenti con vista sui moli.
La «Disneyficazione» è costata sette miliardi di sterline, finanziati, come numerosi cartelli ricordano, dai fondi europei. Nella fredda e grigia Belfast, si coglie il senso profondo dell’ideologia sbagliata della Ue: de-industrializzare l’Europa e trasformarla in un immenso parco divertimenti. Nessuna politica industriale: un continente di 500 milioni di consumatori che spendono e fanno i turisti grazie alle libere frontiere.
Bruxelles, con la sua idolatria del mercato unico, che serve appunto a vendere fragole egiziane nel lembo più settentrionale d’Irlanda, ha ridotto Belfast nell’ennesima, inutile, città-movida. Ma non ha salvato l’acciaio, industria strategica per il Regno Unito e per la stessa Europa: l’acciaio irlandese, appesantito da rigide regole ambientali Ue, va in crisi soppiantato da quello low cost dalla Cina, senza regole. Lungo May Street, un palazzo è tappezzato di cartelloni rossi: annunciano che lì sorgerà il George Best Hotel, albergo a tema per i patiti del calcio. Peccato che i cartelloni siano del 2018: l’hotel non è mai stato inaugurato, e non sembra che ci siano lavori in corso.
Belfast oggi non subisce tanto la Brexit, ma la ricetta socio-economica dell’Unione, messa drammaticamente a nudo dal Covid. Gli aedi che non ammettono altra vita o verità al di fuori del Trattato di Maastricht profetizzano la fine della Gran Bretagna, che sarà punita dal fato per aver osato ribellarsi all’egemonia comunitaria. L’uscita del Regno Unito dall’alleanza continentale porterà alla sua dissoluzione: l’Ulster soggiogato alla Regina si riunirà con l’Irlanda, poi seguirà la riottosa Scozia. Di questo scenario fantapolitico, i supermercati deserti di merci sarebbero il primo indizio. A parte che gli scaffali non sono vuoti, a Belfast l’unica cosa in dissolvimento è il modello europeo delle città Luna park.
