Oggi, per incastrare un colpevole, gli investigatori si basano su scoperte che hanno rivoluzionato le scienze forensi: analisi genetiche hi-tech, ricostruzioni 3D, indagini digitali su ogni dispositivo… Con un unico potenziale ostacolo: il rispetto della privacy.
Il pomeriggio del 7 agosto 1990, al terzo piano di una palazzina di via Carlo Poma 2, a Roma, si consuma uno dei più efferati delitti della cronaca nera italiana: Simonetta Cesaroni, una ragazza di 21 anni, viene bloccata sul pavimento, tramortita con un colpo alla testa, infine uccisa con 29 coltellate inferte con un tagliacarte.
Dopo l’assoluzione prima del portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, e poi del fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, «il delitto di via Poma» è rimasto uno dei più noti casi irrisolti. Mancano indizi, prove, testimoni, sebbene sulla scena del crimine ci fossero sangue, impronte digitali, il pc su cui la giovane stava lavorando e sul quale è stata effettuata l’ultima perizia nel 1996.
Da allora, le scienze forensi, quell’insieme di tecniche che consentono di tradurre le prove nella ricostruzione della verità, hanno fatto passi da gigante. Potendo contare sulla corretta conservazione delle prove rinvenute, sia pure dopo decenni, è possibile analizzarle con i metodi più moderne e arrivare alla soluzione. I famosi «cold case». Vecchi anche di secoli: Can Francesco della Scala, per esempio, condottiero veneto morto nel 1329 subito dopo la conquista di Treviso, ha avuto giustizia nel 2004, quando un gruppo di ricercatori ne analizzò il corpo, perfettamente conservato, stabilendo che era stato avvelenato.
Quello della criminologia è un campo che procede per salti quantici. Solo negli ultimi trent’anni scoperte e tecnologie lo hanno rivoluzionato da capo a piedi: archivi per il confronto di impronte digitali e Dna, centinaia di nuove apparecchiature di analisi come la fotografia balistica stroboscopica. Addirittura, la nascita di discipline come la «digital forensics» che studia i reperti digitali. L’evoluzione è così rapida da non lasciare scampo neanche a quelle tecniche ormai consolidate e che appartengono all’immaginario comune, sempre citate in romanzi e serie tv.
Prendete le impronte digitali. Sono una delle prove cardine repertate sulla scena del crimine, ma sebbene si usino ancora i classici kit con talco o gesso, pennellino e nastro, oppure la cosiddetta «fumigazione» (una reazione a base di iodio che evidenzia l’impronta direttamente sul reperto), sono disponibili tecnologie che fanno sembrare quelle tradizionali di un’altra era geologica. La polvere magnetica, per esempio, evidenzia l’impronta e poi rimossa da un’apposita spazzola che la cattura senza contatto con la superficie, così non c’è il rischio di inficiare la prova.
L’Integrated automated fingerprint identification system (Iafis), invece, è quel sistema – visto spesso nei film – che consente di confrontare le impronte digitali rinvenute per trovare riscontri con criminali già schedati. Inaugurato dall’Fbi nel 1999, da allora viene continuamente potenziato: oggi scova un’impronta tra più di 150 milioni (dato dell’aprile 2021), in 27 minuti. È così efficiente che la tecnologia che lo muove viene data in licenza ad altri Paesi, contribuendo a un mercato che, solo per le analisi delle impronte digitali, raggiungerà entro il 2022 un giro d’affari di 13 miliardi di dollari.
Il business della giustizia muove capitali enormi, buona parte reinvestiti proprio in ricerca e nuove tecnologie. Il che spiega l’accelerazione nel settore delle analisi del Dna. Sembra ieri che la cronaca descriveva le vituperate analisi di alcuni reperti nel caso dell’omicidio della studentessa Meredith Kercher (2007), o le differenze tra Dna nucleare e mitocondriale nel caso di Yara Gambirasio (2010), ma in poco più di dieci anni anche l’analisi genetica forense si è evoluta a tal punto che oggi avremmo riscontri più veloci e solidi anche in casi come questi. Gli investigatori hanno a disposizione sistemi di comparazione estremamente potenti, capaci di catalogare e riconoscere punti specifici nei cromosomi: i cosiddetti «loci» o «marcatori» di cui si legge spesso sui giornali. Tecnologie di analisi molto più veloci e precise perché basate su software di nuova generazione. L’americana Cybergenetics ha sviluppato TrueAllele, software di analisi che, tramite la statistica e l’intelligenza artificiale, promette di eliminare gli errori di interpretazione degli analisti umani. FaSTR Dna, invece, è un progetto neozelandese che, basandosi su una sofisticata piattaforma software, accelera e semplifica l’analisi e il riconoscimento dei profili genetici.
Se nel «piccolo», come i geni, si sono fatti passi da gigante, nel grande non si è stati certo con le mani in mano. L’analisi visiva della scena del crimine, da sempre una delle fasi più delicate e soggette a errori umani, oggi viene preservata e migliorata di diversi ordini di grandezza grazie alla sua scansione e ricostruzione in 3D. Che si abbia a che fare con un incidente automobilistico mortale, o con scenari catastrofici come fu, all’epoca, Ground Zero dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York (2001), si utilizzano appositi scanner tridimensionali, come il Trimble SX10 Total Station, per trasportare la scena nel computer e analizzarla con calma.
Uno scanner di questo tipo, capace di operare con un raggio di ben 600 metri e una precisione di 14 millimetri, trasforma le riprese in milioni di punti che vanno a formare uno scenario 3D che poi, davanti allo schermo, può essere esplorato come di fronte a un videogame, senza perdere un solo dettaglio.
È proprio il mondo digitale, del resto, a rappresentare l’ultima frontiera delle scienze forensi. La digital forensics si occupa, come dice il nome, delle evidenze digitali. Smartphone, tablet e computer coinvolti in un crimine, ma anche braccialetti fitness e smart watch, termostati «intelligenti» e smart tv, console da videogiochi e sistemi di allarme e videosorveglianza. Tutto ciò che può contenere file e dati rappresenta una miniera di informazioni utili o decisive per risolvere anche i casi più intricati. Un telefono, oggi, può fornire posizioni, foto, video, messaggi audio, chat, tragitti percorsi con l’ausilio di un navigatore, attività svolte in un determinato orario: ciò che un tempo richiedeva la raccolta di reperti da decine di fonti diverse, con tempi molto lunghi, ora si ricava dall’analisi forense di un singolo dispositivo.
E laddove vi siano dubbi o perplessità, è possibile incrociare dati e informazioni di altri apparecchi per ottenere conferme o smentite. I sistemi di comparazione della voce consentono di verificare se un messaggio o una telefonata sono stati effettuati da un certo soggetto, anche se questi ha tentato di modificare il tono con dei filtri. La comparazione video permette, sulla base di parametri biometrici, di riconoscere volti e corpi da fotogrammi a bassa risoluzione. O di riconoscere, in tempo reale, un individuo da una ripresa di un sistema di videosorveglianza. L’americana Clearview.ai è salita agli onori della cronaca per il suo sistema di riconoscimento facciale anti-crimine, capace di individuare un volto da un archivio di oltre 3 miliardi di profili raccolti a strascico dal web, senza troppi scrupoli per la privacy.
Ecco, se c’è un elemento verso cui tutte le scienze forensi stanno convergendo, sono le problematiche legate al rispetto della privacy, poiché è questa a dettare limiti e condizioni per molti analisi di nuova generazione. Bloccandone a volte lo sviluppo.
È giusto, per esempio, raccogliere profili di Dna di persone con fedina penale pulita, partendo dal presupposto che qualcuno di loro, prima o poi, diventerà un criminale? È corretto sbloccare il telefonino di una persona morto per indagarne i segreti? E se fosse un serial killer, è giusto che, al contrario, alcune case produttrici di smartphone si ostinino a mettere la privacy in primo piano rendendo inaccessibile il dispositivo alle autorità? Domande cui è facile fornire una risposta di pancia, ma che nel caso delle scienze forensi e del crimine richiedono pazienza e analisi. Attività certo meno scenografiche, ma del resto, e per fortuna, i processi non si fanno in televisione.
