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In prigione, ma con lo smartphone

In prigione, ma con lo smartphone

È vietato. Eppure nelle carceri i detenuti usano smartphone per chattare, andare sui social (i prigionieri influencer sono un fenomeno), dare informazioni all’esterno… E a volte i cellulari arrivano anche con i droni.


L’inquadratura è un po’ buia ma si indovinano perfettamente le sagome che si muovono sullo sfondo. Sono tre uomini. Si passano lo smartphone, salutano, mandano baci. L’ultimo s’improvvisa chansonnier intonando ’O latitante, colonna sonora della malavita che si strugge per la lontananza da casa. Scorrono i commenti di saluto e gli incoraggiamenti. Una pioggia di cuori rossi inonda la schermata di TikTok. Il cantante e gli altri due ridono e staccano il collegamento. Nulla di strano, non fosse che il siparietto è andato in scena dalla casa circondariale di Poggioreale, a Napoli. I detenuti erano in possesso di uno smartphone con collegamento a internet. Ma non sarebbe vietato?

Da una cella vicina, un altro pregiudicato chiama su Facebook una detenuta del penitenziario femminile di Pozzuoli, a pochi chilometri di distanza, e si mettono a chiacchierare. Lei addirittura si sdraia sulla brandina per stare più comoda. Lui fa un po’ il brillante, d’altronde l’uomo è cacciatore (pur se momentaneamente in gabbia). Di nuovo: ma non sarebbe vietato? Sì, certo che è illegale: ma non per questo i carcerati rinunciano al piacere di una telefonata che, pur non allungando la vita come nella storica pubblicità della Sip, accorcia la noia della detenzione. Secondo le stime dei sindacati della polizia penitenziaria, negli ultimi tre anni sono quasi duemila i cellulari sequestrati ai reclusi un po’ dappertutto. Nel capoluogo campano, ma non solo: a Vibo Valentia, Avellino, Agrigento, Verona, Bari, Paola, Palermo, Trani, Augusta, La Spezia, Pescara, Carinola e Aversa, entrambe in provincia di Caserta, e poi Torino, Brindisi, Milano…

Vengono nascosti ovunque ci sia un anfratto, una cavità. Nelle plafoniere e nei quadri elettrici, nelle scarpe o persino nei gabinetti, impermeabilizzati in buste di plastica. Ogni tanto arriva una retata ma controllare tutto (e tutti) è impossibile anche perché le vie di ingresso sono come quelle del Signore: infinite. Come raccontano i numeri delle inchieste di questi mesi. A Santa Maria Capua Vetere sono imputati 42 detenuti per l’ingresso e l’utilizzo di smartphone allungatigli dai parenti durante i colloqui. Altri 24 sono stati arrestati a Trapani, nell’operazione Alcatraz: tra questi, tre agenti della Penitenziaria che si erano improvvisati «corrieri» di prodotti vietati. Un altro poliziotto è finito in manette a Sulmona. Altre tre divise nei guai a Biella in una maxi inchiesta che vede 89 indagati. A Nuoro, nel penitenzario di massima di sicurezza di Badu ’e Carros, una guardia si è ritrovata a contemplare il cielo a scacchi per essersi messa in affari con la sorella di un boss della camorra partenopea. Il loro «negozio» di telefonia, nel carcere sardo, lavorava a pieno ritmo: per uno smartphone chiedevano 1.200 euro e un paio di banconote da 100 invece per sim intestate a cittadini stranieri.

Schede riferibili a nomi inesistenti erano, invece, smerciate a Catania dove un blitz ha portato alla cattura di nove persone che facevano scivolare i cellulari in pacchi di patatine o tra i succhi di frutta. A Salerno gli incriminati sono invece 53 tra cui un avvocato che all’assistenza legale aveva aggiunto pure quella telefonica. Un altro legale è stato bloccato a Regina Coeli, a Roma. E, dove non arriva l’uomo, viene in soccorso la tecnologia. L’ultima frontiera è la consegna coi droni. Succede soprattutto in Campania e Sicilia, dove i clan hanno più soldi per arruolare piloti ed esperti di «volo». Per un’operazione del genere, racconta un investigatore, le cosche pagano circa mille euro al giorno. «Perché non sempre è possibile far sorvolare le strutture e gli atterraggi o gli avvicinamenti alle finestre o nei cortili sono manovre molto delicate che vanno fatte da professionisti» aggiunge. «Di solito, il pacco viene agganciato al drone con una cordicella e fatto arrivare in prossimità dei luoghi di passeggio dove il destinatario dev’essere abile ad agguantarlo senza farsi notare». Altre volte capita che la spedizione venga lasciata lungo i muri perimetrali con la speranza che non finisca nelle mani sbagliate.

«È dal 2015 che lo denunciamo» dice a Panorama Donato Capece, segretario generale Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). «Pensiamo cosa potrebbe accadere se un drone riuscisse a trasportare esplosivo o armi dentro un carcere, come peraltro è successo alcuni mesi fa in quello di Frosinone, quando un detenuto prese in ostaggio il personale di polizia con una pistola piombata giù dal cielo». Da qui la proposta di costituire un nucleo speciale della Penitenziaria «nella gestione dei droni sia in funzione preventiva sia dissuasiva dei fenomeni di violazione degli spazi del carcere». Sui cellulari Capece è ancora più esplicito: «Non sappiamo più come dirlo che le carceri devono essere tutte schermate all’uso di telefoni e qualsiasi altro apparato tecnologico che possa essere utilizzato per comunicazioni». Idea quest’ultima raccolta dalla deputata di Forza Italia, Annarita Patriarca, componente della commissione Giustizia, che ha annunciato la presentazione di un apposito emendamento in finanziaria.

«I jammer e i dispositivi per “oscurare” le strutture di reclusione sono ormai una necessità» ha aggiunto l’esponente del partito azzurro. «Bisogna predisporre appositi capitoli di spesa per fornire gli istituti di pena più critici di queste ulteriori misure di sicurezza». Ma è tutta la filiera del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che pare incapace di reagire, come sottolinea Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria. «Gli influencer dietro le sbarre, che registrano messaggi sui social, dilagano per colpa del completo lassismo che connota l’amministrazione del carcere» e a «farne le spese sono soprattutto i poliziotti penitenziari». E questo perché, analizza, «da sempre ai vertici e negli uffici di maggiore rilievo dell’amministrazione vengono designate figure non adeguate e solo in base ai prevalenti orientamenti politici».

Il governo, però, stavolta sembra intenzionato a invertire la rotta, come chiarisce il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove. «Entro dicembre ci sarà un direttore e un comandante titolare in ogni istituto, ricostruendo così la catena gerarchica del comando e mettendo in sicurezza i nostri istituti» spiega l’esponente di Fratelli d’Italia. Promettendo anche lo stanziamento di 84 milioni di euro per nuovi padiglioni detentivi. «Di fronte al sovraffollamento, non pensiamo a provvedimenti svuotacarceri, ma all’edilizia penitenziaria». Possibilmente senza connessione web.

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