La Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Serbia sono ai ferri corti: i confini della pace di Dayton del 1995 rischiano di saltare. È una secessione strisciante, alimentata da chi vuole un intervento diretto della Russia. E poi si aggravano le tensioni in Kosovo
e Montenegro… Intanto, l’Europa resta a guardare.
A un tratto qualcosa cambia lungo le strade della Bosnia ed Erzegovina. Da una parte i cartelli in caratteri latini e dall’altra in cirillico con la bandiera bianca, blu e rossa che sventola sul «confine» senza sbarre. Un cartellone in inglese ti dà il benvenuto: «Welcome to Republika Srpska», l’area della Bosnia roccaforte dei serbi, che si estende sul 49% del territorio. Le frontiere «invisibili» con il resto della Federazione abitata da musulmani e croati sono l’eredità degli accordi di pace di Dayton, che nel 1995 misero fine alla guerra etnica.
Trent’anni dopo l’inizio della mattanza, che provocò 100.000 morti, il leader dei serbi di Bosnia, Milorad Dodik, è pronto allo «strappo», una secessione strisciante, che sta riaccendendo le tensioni nei Balcani occidentali. Non è l’unico focolaio dell’ex Jugoslavia che potrebbe far scoppiare nuove guerre. Dal Kosovo al Montenegro suonano altri, preoccupanti, campanelli d’allarme.
La Bosnia «è in imminente pericolo di spaccatura» ed esiste una prospettiva «molto reale» di un ritorno al conflitto, si legge nel rapporto di Christian Schmidt, Alto rappresentante della comunità internazionale a Sarajevo, una relazione preparata per il Consiglio di sicurezza dell’Onu, che è stata intralciata dal veto russo. L’ex ministro tedesco ha accusato Dodik, il presidente serbo bosniaco, di portare avanti «una secessione senza proclamarla».
Nel rapporto si legge: «È la più grande minaccia esistenziale del dopoguerra» che mette «in pericolo la pace e la stabilità del Paese e della regione». Dodik risponde a muso duro: se la Repubblica Srpska è un’entità «separatista» della Bosnia ed Erzegovina allora Schmidt «è un occupatore».
Il 14 ottobre ha annunciato che vuole obbligare l’esercito unito bosniaco a ritirarsi dai territori serbi minacciando di circondare le caserme come hanno fatto i russi in Crimea nella recente secessione dall’Ucraina. Se l’Occidente, che ormai conta solo su 700 uomini della missione Eufor a Sarajevo, decidesse di intervenire militarmente, i serbi «hanno amici» pronti a difendere «la nostra causa» ha dichiarato Dodik. Il riferimento è alla Russia e alla confinante Serbia.
Dodik è intenzionato a smantellare le istituzioni comuni, che sono i pilastri degli accordi di Dayton. In luglio ha abbandonato la presidenza a tre della Bosnia. Il pretesto è stata una controversa legge che punisce il negazionismo sul genocidio di Srebrenica (8.000 musulmani massacrati dalle truppe serbo bosniache del generale Ratko Mladic nell’estate del 1995). Dodik vuole fare annullare dal Parlamento di Banja Luka 130 leggi approvate grazie alla comunità internazionale. E nelle ultime settimane ha annunciato che i serbi usciranno dall’apparato di sicurezza, sia esercito che intelligence, da quello giudiziario e fiscale della federazione bosniaca.
«Una secessione de facto più temibile di quella giuridica. Un obiettivo forse più limitato ma, nell’attuale vuoto geopolitico ai confini dell’Europa, perseguibile e pericoloso» spiega Paolo Quercia, docente di Studi strategici. In settembre la polizia serbo bosniaca ha condotto esercitazioni «antiterrorismo» sul monte Jahorina da dove le truppe di Mladic bombardavano Sarajevo. «La guerra del 1992-1995 è iniziata in una situazione simile» ha messo in guardia Elmedin Konakovic, leader dell’opposizione bosgnacca nella parte musulmana del Paese.
Un italiano che vive nella Repubblica Srpska la vede in maniera diversa. «Il motto di Dodik è salvare lo Stato serbo della Bosnia staccandosi in maniera pacifica» dice a Panorama. «Una copia in miniatura di quello che accadde in grande con la disgregazione jugoslava, ma nessuno vuole una guerra, né i serbi né l’altra parte. Molti hanno combattuto negli anni Novanta e non hanno intenzione di tornare in trincea».
I fuochi balcanici favoriscono la corsa al riarmo nella regione. Gli americani hanno offerto una dozzina di caccia bombardieri F-16 alla Croazia. L’arsenale delle forze armate serbe è aumentato dal 2015 del 70 per cento. Mosca e Minsk hanno venduto ai serbi 10 Mig-29, 30 carri armati, elicotteri e sistemi di difesa aerea, ma Belgrado ha comprato pure droni armati cinesi e missili terra-aria francesi. L’allarmante novità annunciata dal premier kosovaro Albin Kurti è che il bilancio per il 2022 prevede, per la prima volta, la cifra record di 100 milioni di euro destinati a sviluppare le capacità alle forze armate.
La «prima linea» d’attrito con la maggioranza albanese corre nel nord del Kosovo attorno all’enclave serba di Mitrovica, al di là del fiume Ibar. Il 13 ottobre le teste di cuoio della polizia di Pristina hanno lanciato nell’area un’operazione ufficialmente «anti-contrabbando».
Immediati gli scontri con i serbi che hanno lanciato ordigni esplosivi e bloccato le strade con i camion. In settembre era scoppiata la «guerra del targhe», che ha fatto intervenire le truppe della missione Kfor della Nato (3.760 uomini compresi 638 italiani). I posti di confine con la Serbia di Jarinje e Bernjak sono rimasti bloccati per due settimane. Il nodo del contendere è che Belgrado non permette di esporre targhe kosovare ai veicoli che entrano in Serbia. E per di più è obbligatorio acquistarne una serba temporanea. Pristina ha inviato i corpi speciali nel nord del Kosovo ed è scattata l’escalation.
I serbi hanno fatto alzare i caccia oltre il confine e il 28 settembre l’ambasciatore russo a Belgrado ha visitato due basi militari vicino al confine kosovaro accompagnato dal ministro della Difesa Nebojsa Stefanovic. Mosca non riconosce il Kosovo. Dall’altra parte della barricata il primo ministro albanese Edi Rama ha visitato il Kosovo attaccando «le teatrali manovre militari della Serbia».
Andrea Angeli, veterano delle Nazioni Unite nell’ex Jugoslavia dice a Panorama: «Sia in Bosnia sia in Kosovo gli assetti istituzionali non sono mai stati completamente digeriti. Esistono sacche di popolazione che hanno delle riserve sul sistema impostato dall’Occidente». L’autore del libro L’assedio invisibile sulla crisi del monastero ortodosso di Decani, in mezzo agli albanesi, conferma che «le ipotesi di spartizione del Kosovo sono circolate anche pochi anni fa, nel 2018. E avevano eco pure fra i serbi di Bosnia. Per questo non si sono mai concretizzate, ma restano sempre un’opzione sul tavolo».
Gli albanesi si sentono «traditi» dall’Unione europea che non ha aperto le porte e accusano la comunità occidentale di esercitare una pressione troppo blanda su Belgrado. Una fonte militare a lungo sul campo ammette che «una cattiva gestione dei focolai di tensione potrebbe aprire il varco alla Serbia per intervenire a “protezione” delle minoranze serbe magari in modo ibrido, avvalendosi le strutture parallele già esistenti sul terreno sia politiche che paramilitari».
Periodicamente riemerge il fantasma della Grande Albania, che fa infuriare i serbi. Il 13 ottobre, Rama, il premier di Tirana, ha dichiarato in tv che «l’unificazione di Albania e Kosovo è un sogno». Nonostante le proteste ufficiali del presidente serbo Vucic, la fonte militare di Panorama rivela che Belgrado «in via riservata ha fatto capire che accetterebbe una confederazione del Kosovo con l’Albania» considerandola più «sicura» dell’indipendenza di Pristina soprattutto se le truppe Nato si ridurranno ulteriormente fino al ritiro.
La tensione è tale che l’opinione pubblica viene facilmente aizzata da episodi banali come «il gesto dell’aquila» con le mani che mimano il rapace di Valentina Petrovic, giovane e bella Miss Serbia che partecipava al concorso di Miss Intercontinentale in Egitto. «Scandalo mai visto, la miss serba fa il gesto della Grande Albania» assieme ad altre modelle. «Opinione pubblica scioccata dall’aquila a due teste» sono i titoli usciti sui tabloid di Belgrado. La povera Valentina ha dovuto ritirarsi e nascondersi per evitare rappresaglie.
I fuochi balcanici si riattizzano sotto le ceneri pure in Montenegro. All’inizio di settembre i difensori del patriottismo locale si sono scontrati con i serbi (30 per cento della popolazione). La scintilla che ha scatenato la guerriglia è stato l’insediamento del nuovo vescovo ortodosso, il metropolita Joanikije, nominato dal patriarca serbo Porfirije. I montenegrini non volevano che avvenisse a Cetinje, antica capitale, accusando la chiesa ortodossa di essere una quinta colonna di Belgrado.
In questo scenario preoccupante l’Unione europea ha molto frenato sul processo di allargamento ai Balcani occidentali. Il primo ministro sloveno, Janez Jansa, presidente a rotazione dei 27 in questo semestre, lancia però l’allarme: «Se la Ue non si espande, altri lo faranno» riferendosi a Russia, Cina e Turchia che sfruttano i focolai per allargare i loro tentacoli.
