Centrare gli obiettivi per la riduzione dell’anidride carbonica entro il 2030 costerà all’industria del Vecchio continente 3.500 miliardi, di cui 650 al nostro Paese. Che rischia di restare al palo a causa degli ostacoli burocratici, tecnici e culturali alla rivoluzione green.
Non solo la transizione energetica avrà costi molto elevati per l’Italia, ma il nostro Paese rischia pure di non riuscire a centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2. A certificarlo è uno studio condotto su 12 economie europee dal Rea, l’associazione di categoria dell’energia rinnovabile e delle tecnologie pulite più grande del Regno Unito, secondo il quale l’Italia è tra i Paesi che rischiano di non rispettare i target di decarbonizzazione indicati dalla Commissione. Il pacchetto europeo Fit-for-55, probabilmente il più ambizioso al mondo, si propone di ridurre del 55 per cento le emissioni di CO2 entro il 2030 (rispetto al 1990). Si tratta di uno sforzo gigantesco che costerà all’industria europea 3.500 miliardi di euro: per l’Italia, che intende aumentare la produzione di elettricità eolica e solare di ben 67 terawattora (cioè 67 mila gigawattora) entro il 2030, si stima una spesa di 650 miliardi.
Dagli imprenditori ai politici, a partire dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, sono tutti ben consapevoli della quantità di ostacoli burocratici, tecnici e culturali che un piano così ambizioso dovrà abbattere per essere realizzato. Ora a metterli in fila c’è il report britannico, sponsorizzato dalla multinazionale Eaton di Dublino (specializzata in soluzioni per un’energia sostenibile), che Panorama pubblica in esclusiva per l’Italia. L’indagine, intitolata Energy Transition Index 2021, analizza i mercati energetici di 12 Paesi europei e ne valuta il livello di preparazione riguardo all’adozione delle energie rinnovabili, ponendoli a confronto con gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati dal pacchetto Fit-for-55. Nel dettaglio, i Paesi vengono classificati in base ai progressi compiuti in tre aree: il supporto socio-politico per la transizione energetica; la capacità di sfruttare nuove tecnologie e modelli di business; l’accesso al mercato aperto dei servizi di flessibilità, ritenuti fondamentali per bilanciare la produzione e stabilizzare i sistemi elettrici basati su fonti rinnovabili, che per loro natura non sono programmabili.
Dei 12 Paesi presi in esame, quelli posizionati meglio per raggiungere il traguardo sono Finlandia, Norvegia e Svezia, seguiti a ruota da Danimarca, Irlanda e Paesi Bassi. In coda ci sono invece Italia e Spagna, mentre Francia, Germania, Svizzera e Regno Unito sono a metà strada. Per quanto riguarda l’Italia, lo studio rimarca che «il consenso pubblico e politico sta crescendo, ma i costi e le implicazioni sociali non sono ben compresi. La politica del governo è stata messa in atto e un nuovo ministro è stato nominato per guidare la transizione energetica. Ma c’è una mancanza di consenso con evidenti differenze regionali».
Mentre la politica del governo italiano è chiara, sostengono gli analisti del Rea, la realizzazione è lenta. «L’incertezza normativa presenta un ambiente difficile per gli investimenti dei nuovi operatori di mercato. L’accessibilità alla rete non è omogenea, con potenziali problemi di accesso nell’Italia meridionale. Gli incentivi per i veicoli elettrici (utili per stabilizzare la rete, ndr) sono limitati». Nel 2019 la produzione elettrica rinnovabile in Italia era di circa 115 terawattora e copriva il 35 per cento dei consumi: dovrebbe salire entro il 2030 a 182 terawattora per raggiungere il fatidico 55 per cento. In particolare, gli impianti solari ed eolici coprono il 13 per cento dei consumi. A titolo di raffronto, in Germania nel 2019 la produzione elettrica rinnovabile copriva il 41 per cento del consumo annuale, con il solare e l’eolico che da soli rappresentavano il 29 per cento della domanda. Ben più di noi, dunque. Eppure questo non basta a piazzare i tedeschi in cima alla classifica perché, come sottolinea il report, «c’è un forte consenso sulla transizione energetica, ma il progresso è limitato dalla sfida politica di sostituire il carbone con le energie rinnovabili e dalle diverse priorità tra governo regionale e federale. Mentre la direzione politica è chiara, l’attuazione dei cambiamenti è incerta e lenta». Del resto, la Germania dovrà affrontare la sfida più grande tra i Paesi europei, dovendo aggiungere 138 terawattora di risorse solari ed eoliche (più del doppio delll’Italia) entro il 2030.
Molto meglio fanno i Paesi nel Nord Europa. Nel trio di testa spicca la Norvegia, che addirittura produce più elettricità verde di quanta ne consumi. La Svezia, invece, nel 2019 copriva con le fonti rinnovabili il 71 per cento dei consumi elettrici: come in Norvegia la maggior parte delle sue fonti rinnovabili sono idroelettriche, con solo il 15 per cento circa derivato dal solare e dal vento. La Svezia si è posta come obiettivo di avere l’83 per cento di produzione rinnovabile per il 2030. In Finlandia, poi, dove la produzione annuale rinnovabile rappresenta il 38 per cento della domanda, i governi hanno indicato obiettivi e piani di attuazione ben definiti per realizzare la transizione energetica, ma ci sono alcuni ritardi nella realizzazione.
Una grande sfida è quella che si sono dati i Paesi Bassi: nel 2019, la produzione olandese rinnovabile (principalmente eolica e solare) ha rappresentato il 18 per cento del consumo annuale e dovrebbe salire al 70 nel 2030, il che significa aumentare la produzione eolica e solare di 53 terawattora. Il problema, segnala l’indagine, è che il cambiamento del panorama politico ha spostato l’attenzione dalla transizione energetica verso altre priorità: «Le politiche e i piani non tengono il passo con gli sviluppi del mercato».
Tra i grandi Paesi, insieme alla già citata Germania la Francia è posizionata meglio dell’Italia, anche se «l’alta capacità nucleare genera minore urgenza a decarbonizzare ulteriormente l’economia. Il progresso verso la transizione energetica e la crescita delle rinnovabili è limitato dagli interessi dell’industria nucleare». Nel 2019, la produzione annuale rinnovabile francese ha rappresentato il 22 per cento del consumo annuale (meno dell’Italia), con il resto dominato dall’energia nucleare.
Nel Regno Unito la produzione annuale di elettricità rinnovabile ha coperto nel 2019 il 35 per cento del consumo annuale, con il solare e l’eolico che hanno rappresentato il 22 per cento del domanda. I consulenti del governo britannico hanno fissato l’obiettivo del 50 per cento di produzione di energia rinnovabile per il 2030. «Nel complesso» sottolinea lo studio «c’è un forte sostegno pubblico e politico per la transizione e il Regno Unito ha fissato ambiziosi obiettivi a lungo termine. Ma un’ampia consultazione sulle politiche porta spesso a ritardare o cambiare le decisioni. Lo scarso allineamento tra gli organi di governo fa sì che la realizzazione degli obiettivi politici sia molto incerta, soprattutto a breve termine». Eppure nonostante queste incertezze anche i britannici sono messi meglio di noi, almeno secondo il report.
