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Covid Zoo

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Gli umani restano i suoi «ospiti» preferiti, ma il Sars-CoV-2 si diffonde sempre più tra molte specie animali. L’ultimo caso: un negozio cinese di criceti. Il rischio (assai reale) è che il coronavirus si ricombini e ci ritorni mutato. Troppo per essere riconosciuto da questi vaccini.


Il primo caso, nella primavera 2020, fu un gatto cinese, poi un altro micio in Belgio, e un paio di cani in Europa. Parevano – al più – inquietanti anedotti, sfortunati pets contagiati dai loro padroni positivi al Sars-CoV-2. Ma l’ultimo episodio, duemila criceti eliminati in Cina dopo un focolaio di coronavirus in un negozio di animali di Hong Kong, giusto qualche settimana fa, conferma un’epidemia silenziosa, e parallela alla nostra, nelle altre specie. Dove il contagio non passa più dall’uomo alla sua bestiola domestica e lì si ferma, ma si diffonde da esemplare a esemplare finché, spesso, l’unica decisione possibile è quella di eliminare un numero enorme di animali (ricordate i 17 milioni di visoni abbattuti in Danimarca?).

Nel giro di due anni, nell’arca di Noè del coronavirus si sono così imbarcati topi, criceti, cani, gatti, furetti, visoni, procioni, lontre, leopardi delle nevi, tigri, leoni, puma, delfini, gorilla, ippopotami, cervi. Un assortimento di animali che vivono nelle nostre case, nelle città, in cattività (è il caso dei grandi felini in alcuni zoo americani), in allevamenti intensivi, ma anche in habitat selvatici, come i cervi dalla coda bianca nei parchi dello Iowa, Stati Uniti.

Primo pensiero: «Si contagiano anche loro? Pazienza, sapessi noi…». Secondo pensiero: «Ma non è che poi, magari, ci arriva un’ennesima variante e siamo punto e a capo?». Ecco, la seconda riflessione è quella giusta.

Se è vero che il Covid-19 (dopo lunga permanenza nei pipistrelli) ha deciso che siamo noi la sua specie prediletta – oltre 7 miliardi di potenziali ospiti diffusi in ogni habitat, con un’inarrestabile vita sociale e una formidabile velocità di movimento – non disdegna tuttavia di prendersi un passaggio in altre forme viventi. E non è affatto un bel segno.

«Si poteva pensare che il Sars-CoV-2 avesse fatto bingo infettando centinaia di milioni di individui sul pianeta, ma questo giro negli animali significa che è un virus estremamente plastico» afferma Giovanni Di Guardo, patologo veterinario, già professore di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria all’Università di Teramo. «Sta crescendo la sua capacità di passare dall’uomo ad altre specie, e mi preoccupa molto il caso dei cervi a coda bianca americani».

Perché mai? «Perché sono una specie sociale che vive in gruppi e ha una forte suscettibilità al coronavirus: se infettati, riescono a trasferire rapidamente il virus ad altri cervi. In una prima indagine in quattro Stati americani del Nord-est, è risultato positivo il 40 per cento degli esemplari testati. E in questi cervi, il recettore Ace2, con cui il virus entra nelle cellule, mostra analogie di sequenza molto elevate con quello umano. Il precedente dei visoni contagiati in Danimarca e nei Paesi Bassi, dove il virus mutato è stato poi “restituito” ad alcuni lavoratori di quell’allevamento, nonché il caso dei cervi a coda bianchi americani e, adesso, dei criceti cinesi, sono degni della massima attenzione» afferma Di Guardo.

Il timore, per nulla astratto, è che in uno dei numerosi serbatoi animali il Sars-Cov-2 si ricombini in un qualcosa di molesto in grado di rimbalzare alla nostra specie, infischiandosene di vaccini e booster messi a punto sull’ormai lontano ceppo di Wuhan. Per inciso: a più di due anni di distanza, non è stata nemmeno chiarita l’origine del Covid-19. L’ipotesi più verosimile (è quasi sempre successo così nella storia delle epidemie) è il passaggio pipistrello – animale X – uomo. Ma sull’identità dell’«ospite intermedio» resta il punto di domanda.

«Lo zibetto è il presunto colpevole, ma non è stato mai dimostrato con certezza» spiega Massimo Ciccozzi, direttore dell’Unità di Statistica medica ed epidemiologia molecolare all’Università Campus Biomedico di Roma e autore del primo studio italiano, nel 2020, sul salto di specie del Sars-CoV-2 da pipistrello a uomo. «In Cina lo zibetto è un animale pregiato, del resto laggiù mangiano tutto quello che si muove. In un certo senso, si potrebbe dire che è stato “assolto” perché sarebbe costato troppo eliminarlo dal mercato alimentare».

Per individuare il prossimo, potenziale pericolo di un rimbalzo del Covid-19 da animale a uomo, con tutte le acrobazie e i travestimenti molecolari del caso, ci si è messa anche l’intelligenza artificiale: i volenterosi algoritmi del Cary Institute of Ecosystem Studies di New York hanno identificato 540 specie di mammiferi che potrebbero non solo fare da serbatoio al coronavirus, ma spargerlo in giro; oltre ai soliti noti, cioè pipistrelli, pangolini e visoni, anche 76 specie di roditori, i bufali d’acqua e i cervi a coda bianca, predetti dalla A.I. lo scorso novembre, prima che il Sars-CoV-2 vi venisse individuato. Intanto, in vari zoo americani, e a Buin, un comune di Santiago (America del Sud), hanno iniziato a immunizzare una serie di animali. Nello zoo di Buin, per esempio hanno ricevuto prima e seconda dose di un vaccino veterinario anti-Covid la tigre del Bengala Charlie, l’orango Sandai, tre puma e due tigri.

A proposito di rimbalzi sgraditi: secondo uno studio filogenetico di ricercatori dell’Accademia cinese delle scienze, l’ultima variante di coronavirus potrebbe esserci stata «regalata» dai topi. Lo spillback di Omicron, ossia il salto di specie «di ritorno», trova, per ora, pochi consensi tra gli altri scienziati: più probabile che Omicron sia emersa in un paziente immunodepresso, com’era avvenuto per la Delta: in un malato con difese indebolite, il virus entra nell’organismo con due mutazioni, per dire, e ne esce con 13. È tipico dell’hiv, il virus dell’Aids, ma può farlo anche il coronavirus.

«Il rischio di un nuovo spillover animali-uomo c’è sempre, l’80 per cento delle malattie infettive avrebbe come origine una zoonosi» avverte Ciccozzi. «Nell’influenza aviaria del 1997, la promiscuità nelle stesse gabbie di polli e anatre fece sì che si passassero il virus, il pollo all’inizio non aveva sintomi, e l’uomo se lo prese da quest’ultimo. Un altro esempio? L’H1N1 dagli uccelli arrivò a noi causando la Spagnola del 1918-1920, poi tornò nei maiali e di nuovo agli esseri umani nel 2009 come influenza suina. Il coronavirus potrebbe fare la stessa cosa, fra due o fra dieci anni. E anche la recente peste suina in Piemonte nasce così, negli allevamenti intensivi. Per cui va bene dare il vaccino negli zoo, e va bene vaccinarci tutti, ma a un certo punto dobbiamo ascoltare anche chi dice di non deforestare, ridurre gli allevamenti intensivi, agire sull’ambiente».

Azioni globali di livello internazionale, difficile che siano realizzate in tempi brevi, ammesso che ci sia poi la volontà. Invece, ciò che si potrebbe e si sarebbe dovuto fare sin dall’inizio, è inserire un medico veterinario nel Comitato tecnico scientifico (assenza singolare, così come quella di un virologo). «È stata cambiata la composizione del Cts, ma due anni evidentemente non sono bastati affinché un veterinario ne faccia parte» denuncia Di Guardo. Altro punto su cui investire di più, la sorveglianza molecolare dei virus animali. «Sull’investigazione delle zoonosi gli istituti zooprofilattici italiani sono molto attivi» dice Ciccozzi. «Ma occorre fare di più: sarebbe fondamentale sequenziare sempre, in prima battuta, i virus animali, magari “random”, e inserirli in una banca data nazionale. Perché se non riformiamo la sanità del territorio, e intendo anche quella veterinaria oltre che umana, non ne usciamo. E nella prossima guerra contro un virus, ci faremo, di nuovo, molto male».

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