Sono 750 i miliardi di dollari necessari a recuperare le strutture del Paese, Per ora. Perché più questo conflitto dura, più cresce la cifra. Ma chi metterà i soldi, come si gestirà uno scenario post-bellico di immani tensioni, quali saranno i vantaggi e per chi… è tema spinoso. Soprattutto per l’Italia.
La diplomazia politica non ha ancora trovato una soluzione al conflitto ucraino ma quella economica già sta lavorando per il dopo. C’è un Paese da ricostruire, ponti e strade ridotti a macerie, città da ridisegnare, scuole, ospedali, sedi amministrative rase al suolo da rimettere in piedi. La Kiev school of Economics ha stimato che solo per edifici e infrastrutture serviranno 104 miliardi di dollari, ma per recuperare ciò che l’economia ucraina ha perso non ne basteranno altri 500. Complessivamente si tratterebbe di oltre 750 miliardi.
Una cifra in aggiornamento continuo, con le evoluzioni della guerra. Chi metterebbe i soldi, è il grande dilemma. A luglio, rappresentanti delle istituzioni internazionali, uomini d’affari, leader politici insieme alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si sono incontrati a Lugano. All’ordine del giorno: la tabella di marcia della ricostruzione post-bellica. Sono stati fissati solo principi generici, senza entrare nel dettaglio sulle modalità degli interventi e su chi avrà il controllo dell’impiego dei fondi, un particolare rilevante considerata l’alta corruzione che caratterizza il Paese. Tutti vogliono capire l’entità della posta in gioco perché nessuno intende imbarcarsi in donazioni al buio, soprattutto in un momento di crisi economica. L’ipotesi di un nuovo indebitamento europeo comune, sul modello del piano di rilancio del dopo-Covid 19, il Next Generation Eu, non ha finora raccolto entusiasmo. A cominciare dalla Germania. In Europa spira aria di recessione e l’inflazione mette i bilanci sotto stress.
La Conferenza di Lugano, anche se vaga sulle modalità degli investimenti, ha però già spartito la torta delle competenze per ciascun Paese. E per l’Italia le cose non si mettono bene. Ai francesi toccherebbe la città di Odessa, mentre agli svizzeri la regione in cui ha sede la città portuale, ai tedeschi la regione di Kernihiv, ai canadesi la regione di Sumy. A Stati Uniti e Turchia andrebbe quella di Kharkiv, mentre all’Irlanda la regione di Rivne. La Romania si occuperebbe di Mykolaiv, la Norvegia di Kirovohrad e l’Austria di Zaporizhzhia. A Svezia e Paesi Bassi la supervisione della regione di Kherson; alla Repubblica Ceca, alla Finlandia e alla Svezia la regione di Lugansk; Kirovorhrad spetterebbe alla Norvegia.
E l’Italia? Insieme ai polacchi, si dovrebbe occupare del Donetsk, che sulla carta ha grandi prospettive perché ha la maggiore concentrazione di risorse minerarie, ma potrebbe risultare ingestibile. È in mano ai russi dal 2014 e difficilmente Mosca rinuncerebbe a uno scrigno così ricco. Inoltre in questa regione si sono concentrati gli scontri più violenti ed è totalmente devastata. Gli analisti spiegano che difficilmente si può applicare l’approccio – un po’ neocoloniale, in verità – del «ricatto del debito», ovvero aiuti finanziari in cambio di concessioni. Kiev non è un Paese africano, ha competenze e know how nei settori più avanzati, dall’industria aerospaziale all’elettronica, all’informatica. Intanto la Commissione europea ha proposto per il 2023 un pacchetto di finanziamenti senza precedenti, fino a 18 miliardi di euro erogati in rate da 1,5 miliardi al mese. Dovrebbe coprire una parte significativa del fabbisogno di finanziamento a breve termine, che le autorità ucraine e il Fondo monetario internazionale (Fmi) stimano in 3-4 miliardi di euro al mese per pagare stipendi e pensioni, mantenere in funzione i servizi pubblici essenziali, come ospedali, scuole e alloggi per le persone dislocate e ripristinare le infrastrutture critiche distrutte.
La Banca europea per gli investimenti proporrà la creazione di un fondo di 100 miliardi di euro. Ma sono una goccia nel deserto. Il New York Times il 7 settembre ha scritto che c’è una fase di stallo nel Recovery Plan, per il divario tra le richieste dell’Ucraina, 750 miliardi di dollari in 10 anni, e quanto i donatori (Unione Europea e, solo in misura minore, G7) si sono finora mostrati disposti a concedere. A ottobre, Berlino, ha ospitato un’altra conferenza, nella quale il cancelliere Scholz ha invocato un nuovo Piano Marshall. Il dibattito istituzionale sulla ricostruzione urbana appare dunque ruotare intorno a una contrattazione economica internazionale. Ma c’è un freno, ed è l’alta corruzione del Paese. Sulla credibilità di Kiev grava la gestione clientelare dei 10 programmi finanziati dal Fondo monetario internazionale dopo l’indipendenza del 1991: di questi l’Ucraina ne avrebbe portato a termine solo uno. In questo contesto l’Italia come si sta muovendo? Il nuovo governo, con i ministri delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso e della Transizione ecologica, Gilberto Pichetto Fratin, è impegnato in un dialogo serrato per preparare la strada alle nostre aziende. Il lavoro non è facile.
Ecco un dettaglio che lo fa capire. L’Ufficio del presidente ucraino ha assegnato a una Ong di progettisti, la Urbanyna, l’elaborazione di un Manuale sulla ricostruzione delle città ucraine, pubblicato a settembre, una sorta di catalogo delle diverse soluzioni progettuali. Ebbene, nelle 400 pagine, accanto ai disegni dei nuovi quartieri ultra moderni e green ci sono le «best practice» tedesche, olandesi, francesi, danesi, inglesi, più qualcosa di americano. Nessuna italiana. «Gli accordi di governo possono dare le linee guida ma poi saranno le imprese dei vari settori ad aggiudicarsi i lavori. Ma nel sistema ucraino degli appalti spesso non si segue il meccanismo delle gare bensì della licitazione privata. Tedeschi e francesi sono aggressivi e ben posizionati» afferma Renato Walter Togni, presidente della Camera di commercio italiana per l’Ucraina. Poi rivela che sono in corso contatti con aziende che si occupano della depurazione di acque, uno dei temi prioritari nel periodo post-bellico.
Per fare il punto sulle potenzialità di intervento nel territorio, la Camera di commercio ha organizzato la conferenza internazionale online «ReBuild Ukraine – Italia», durante la quale si è arrivati a un accordo di collaborazione tra l’Ance, l’Associazione dei costruttori, e il corrispettivo ucraino, Cbu. Il primo passo sarà la formazione di specialisti locali nel campo delle costruzioni nel rispetto degli standard Ue. Si dovrebbe entrare nel vivo degli accordi tra imprese il prossimo 15 e 16 febbraio, con la missione d’affari a Varsavia, in occasione del Forum «ReBuild Ukraine». Le imprese italiane potranno incontrare direttamente in loco i potenziali clienti ucraini e proporre i propri prodotti e servizi. La partita è solo all’inizio e con molte incognite.
