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Il patrimonio dell’Umanità da difendere è italiano

Il patrimonio dell’Umanità da difendere è italiano

Dal Parmigiano Reggiano alla Pizza, passando per il Tiramisù e la piadina, i prodotti Igp italiani più famosi sono sempre più soggetti a contraffazioni. C’è anche chi nega siano stati inventati in Italia.


L’ultima arriva dalla Cina: una frittella di scalogno servita in una pasta piegata a portafoglio è chiamata «Piadina romagnola». A Rimini sono pronti a fare guerra, anche perché la «piada» è un marchio Igp. Contare che l’Europa la difenda è una chimera, l’avvocato Paolo Magnani è comunque già al lavoro per la causa internazionale. Niente di più probabile che il professor Alberto Grandi, storico dell’alimentazione all’Università di Parma, trovi però plausibile la pista cinese.

Nel suo saggio Denominazioni d’origine inventate, uscito cinque anni fa, ha smontato molte certezze sulle nostre ricette. Si è rifatto vivo con un l’intervista al quotidiano Financial Times sostenendo che il vero Parmigiano Reggiano si fa nello Stato Usa del Wisconsin, che la «carbonara» è americana, che la pizza fino agli anni Settanta nel Nord Italia era sconosciuta ed era un disco di pasta con due acciughe, che il tiramisù è un’invenzione degli anni Ottanta, e il Panettone è solo industriale. Ha sollevato un vespaio con la Coldiretti che è andata su tutte le furie anche perché – forse per mera coincidenza – l’articolo è stato pubblicato a due giorni di distanza dalla richiesta all’Unesco di far entrare la cucina italiana nella lista del Patrimonio immateriale dell’umanità.

Un minimo sospetto viene per il fatto che il professore si dichiara «devoto» di Eric Hobsbawm, lo storico marxista britannico che scrisse «l’invenzione della tradizione» e parla a proposito dell’Italia di gastro-nazionalismo. Anche lui compie qualche errore. Il tiramisù è stato servito – con tanto di nota sul conto – al ristorante Roma di Tolmezzo il 12 dicembre 1951, creato da Norma Pielli. Il Parmigiano Reggiano di cui si ha notizia già nel Duecento ha un disciplinare che risale a Ranuccio Farnese del 1612.

La prima pizzeria fu aperta a Napoli, a Port’Alba, nel 1738. E anche sulla carbonara, se è vero che nella «razione k» dei marines c’erano bacon e uovo liofilizzato, è anche vero che l’origine sta nella pasta alla Gricia. La facevano i valtellinesi, i grici appunto, stabilitisi a Roma alla fine del Settecento a fare i salumieri che usavano il guanciale. Queste dispute rendono attuale la classificazione della cucina italiana all’estero. Il governo ha rilanciato l’idea, già emersa con Matteo Renzi, di certificare le tavole tricolori. Sostiene Francesco Lollobrigida: «Si tratta di un disciplinare non vincolante, ma che darà la possibilità ai ristoratori che lo vorranno di esporre un marchio del governo italiano». Lo scopo? Arginare le imitazioni dell’italian sounding, fenomeno commerciale che dà 120 miliardi di euro contro i 60,7 di export nazionale agroalimentare. Secondo la Federazione italiana pubblici esercizi, i veri ristoranti italiani nel mondo sono 2.218 in 60 Paesi, in 451 diverse città, per 250.875 coperti. Quelli che dicono di fare cucina tricolore sono 10 volte tanto. Per gli utenti del più cliccato sito di cucina del mondo, www.tasteatlas.com, la nostra è la più amata davanti a Grecia e Spagna. La Francia è ottava. Tra i piatti preferiti: pizza, tagliatelle con ragù alla bolognese, risotto, pasta alla carbonara, pesto genovese, gnocchi, lasagne e tiramisù. Quelli che il professor Grandi vuole smontare. Gualtiero Marchesi diceva ad Alain Ducasse: «La cucina francese tramonterà quando gli italiani si renderanno conto della ricchezza dei prodotti che hanno». Forse quel momento è arrivato. (C.C.)

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