Cina, dieci, cento, mille Wagner
Le compagnie private di sicurezza cinesi. Sono impegnate, per esempio, nella scorta a uomini d’affari di Pechino
Inchieste

Cina, dieci, cento, mille Wagner

Rispetto al gruppo di Evgenij Prigožin, le compagnie del Dragone contano milioni di mercenari, con un forte controllo da parte di Pechino. L’obiettivo: garantire gli interessi economici del regime, tra Nuova via della seta e collaborazioni interessate con Paesi in via di sviluppo.


Come suona «Wagner» in cinese? Il gruppo Wagner, la brigata mercenaria russa divenuta celebre per i crimini di guerra compiuti in Ucraina e in altri quadranti bellici, nelle ultime settimane ha riempito le cronache per l’improvviso, anomalo colpo di Stato tentato contro Vladimir Putin e poi misteriosamente abortito. Forte di circa 50 mila uomini ben addestrati, per metà ex militari e per metà ex galeotti, il gruppo Wagner è formalmente la milizia privata creata nel 2014 da Evgenij Prigožin, l’ambiguo imprenditore putiniano che l’ha guidata fino al fallito putsch di fine giugno: da anni, però, viene pagata dal ministero della Difesa russo e il governo di Mosca l’ha dispiegata in Siria e in vaste aree dell’Africa, dalla Libia al Mozambico, ma l’ha spedita perfino in Venezuela. La brigata, in genere, compare nelle aree del globo dove il Cremlino ha interessi economici o politico-strategici, ma preferisce non essere ufficialmente coinvolto.

L’utilizzo di soldati mercenari, però, non è affatto un’esclusiva della dittatura russa. Pochi lo sanno, ma anche in questo il regime comunista cinese di Xi Jinping supera di mille lunghezze quello dell’alleato Putin: da molto tempo la Repubblica popolare può contare su un’intera galassia di eserciti senza bandiera e stellette ufficiali. Sempre più inquieti rapporti d’intelligence rivelano che dal 2004, ma soprattutto dopo il 2012, l’anno in cui Xi ha preso il potere, Pechino ha iniziato a organizzare un numero crescente - e impressionante - di «Private security companies» (Psc), cioè società di contractor, con soldati e agenti bene armati e addestrati, da attivare anche all’estero.

Come sempre accade in Cina, le dimensioni di quanto vi accade superano ogni immaginazione. Le Psc cinesi sono una marea. Il loro numero viene stimato tra un minimo di 5 mila e un massimo di 9 mila società attive in patria, più altre 7 mila all’estero, per un totale di 3,5 milioni di addetti, in larga parte ex militari di carriera.

In Cina prevalgono le agenzie che svolgono soprattutto compiti di body guarding e più raramente di scorta armata. Ma ci sono anche ibridi inquietanti, come la Xinjiang production and construction corps, un’impresa di costruzioni colossale (2 milioni di dipendenti) che controlla e gestisce una potente organizzazione paramilitare, la Bingtuan. La Bingtuan ha una lunga storia di campagne militari ai confini occidentali, verso l’Afghanistan, ma da una decina d’anni è stata impiegata dal governo cinese anche nella brutale repressione della minoranza islamica degli Uiguri, e ha compiuto atti di tale crudeltà che tra il 2020 e il 2022 la Xinjiang production and construction corps è stata colpita dalle sanzioni americane, canadesi ed europee.

All’estero, formalmente, le Psc cinesi hanno una sola funzione. Devono proteggere gli interessi di Pechino e delle società del Dragone che lavorano nell’estrazione di minerali tra Africa e America del Sud, o sono impegnate nelle grandi opere infrastrutturali della «Belt road initiative», la Nuova via della seta avviata in oltre 100 Stati asiatici, africani ed europei, in cui la Cina dal 2013 ha investito quasi mille miliardi di dollari.

Soprattutto in certi fragili Paesi in via di sviluppo, le milizie delle Psc cinesi possono essere un efficacissimo strumento di pressione politica e d’intimidazione. Ovunque, comunque, servono a evitare che la Repubblica popolare sia costretta a inviare soldati in uniforme, incolonnati dietro a una bandiera rossa con le cinque stelle gialle. I mercenari, insomma, consentono al governo di Pechino e al suo Partito comunista di proclamare un ipocrita rispetto del principio internazionalista della «non interferenza» negli interessi di altri Stati: in pratica, le Psc garantiscono copertura estetica ai peggiori comportamenti colonialisti cinesi.

La prima Psc cinese a essere fondata, nel 2004, è stata la Huaxin Zhongan di Pechino: oggi conta 30 mila dipendenti, due terzi dei quali «in missione in 21 Stati esteri», tra cui Malta, Sri Lanka, Malesia, Egitto. Offre «servizi di sicurezza armata terrestre e marittima», ma opera anche nell’intelligence, e le pagine del suo sito internet sono piene d’immagini di soldati in parata e di poliziotti che salutano sull’attenti, incorniciate da motti patriottici («Il coraggio di affrontare mare e terra fuori dal nostro Paese») che non sfigurerebbero in una caserma dell’Esercito di liberazione popolare. La Psc che si pensa abbia più personale è la Beijing security services company, con oltre 80 mila addetti dislocati in 28 Paesi.

In apparenza, le Psc cinesi sono private, ma nella Repubblica popolare, si sa, il confine tra Stato e non-Stato è assai labile. E alcune agenzie, come la Frontier services security, con sede tra Pechino e Hong Kong, che operano soprattutto in Africa affidandosi curiosamente a istruttori americani, appartengono dichiaratamente allo Stato. Nelle pagine online, tutte sottolineano la competenza dei loro istruttori, veterani delle forze speciali cinesi, e l’esperienza nel garantire i progetti della Nuova via della seta.

Certo, la differenza con il gruppo Wagner è evidente: quello è un esercito mercenario che risponde ai comandi statali russi, mentre le Psc cinesi si presentano come semplici imprese di sicurezza private, che operano alle dipendenze di altre aziende cinesi poste a rischio all’estero, in ambienti difficili dove le garanzie di legalità sono ridotte.

Le Psc, però, pubblicizzano spesso i loro legami con il Partito: «Ovunque arriverà l’attività di sicurezza, là verrà istituita un’organizzazione di Partito», si legge per esempio sul sito della Huaxin Zhongan. E la società sostiene anche di aver «sempre considerato la qualità politica come il primo fattore nella gestione delle scorte armate all’estero» e di avere «insistito sul rafforzamento della leadership del Partito» su questo tipo di servizi.

L’influenza del Partito comunista sulle Psc, quindi, è evidente e forse il fenomeno dovrebbe iniziare preoccupare l’Occidente. Alessandro Arduino, un italiano che insegna a Shanghai e Singapore e che nel 2018 ha scritto il saggio L’esercito privato cinese: come proteggere la Via della seta, sostiene che «Pechino ha dovuto constatare che il principio di non interferenza non è bastato a proteggere i lavoratori e le infrastrutture cinesi dalla criminalità e dalla violenza politica».

Nel suo nuovo libro (Soldi per il caos: mercenari, compagnie militari private, droni e il futuro della guerra), che uscirà in ottobre, Arduino aggiunge che le Psc cinesi al momento sono «un riempitivo tra il mantenimento della politica di non interferenza e la presenza dell’Esercito popolare di liberazione». Lo spartito delle milizie cinesi, insomma, punta dritto su una musica... wagneriana. E non sono note positive.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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