Mentre crescono le transazioni elettroniche (e inizia anche la sperimentazione con l’euro), i grandi investitori si contendono il primato nel settore. in gioco, nonostante la crisi, c’èÈ un business colossale.
Il mercato scommette sull’addio ai contanti senza «se» e senza «ma». E poco gli importa se la svolta nelle modalità di acquisto dei consumatori di tutto il mondo possa servire a eliminare l’evasione, non è questo il punto che interessa: per banche d’affari, multinazionali e fondi impegnati nelle operazioni di fusioni e acquisizioni di piccoli e grandi player nel settore dei servizi di pagamento ciò che conta sono i numeri. Quelli delle transazioni digitali che nel 2022 in Italia sono balzate a quota 392 miliardi di euro e rappresentano, secondo i dati del Politecnico di Milano, il 40 per cento dei consumi complessivi. Parliamo delle operazioni effettuate con le carte e i portafogli elettronici installate sui nostri smartphone, che fanno registrare un incremento del 18 per cento rispetto all’anno prima e quasi del 100 per cento sul 2017, con il 2023 che dovrebbe chiudere sfondando la soglia dei 400 miliardi, in una forchetta tra i 425 e i 440 miliardi.
Un trend globale, com’è stato messo nero su bianco da un recente studio McKinsey, secondo il quale l’uso del contante si riduce al ritmo del 4 per cento all’anno mentre i ricavi dalle operazioni elettroniche crescono con percentuali vicine al 20 per cento. La vera svolta è avvenuta con la pandemia. Non che il processo non fosse in atto, ma di sicuro l’emergenza Covid e le restrizioni alla possibilità di raggiungere fisicamente i negozi o i grandi centri commerciali hanno dato un impulso fondamentale al cambio di abitudini, anche degli italiani che vista l’alta età media sono tra i più restii a dire addio alle banconote per lanciarsi nell’avventura digitale. Ovvio che la stretta repentina della Banca centrale europea, con la guida di Christine Lagarde i tassi sono arrivati da zero al 4,5 per cento nel giro di poco più di un anno, abbia drenato liquidità. Così com’è vero che alcune big del settore, emblematico il caso della francese Wordline, stanno soffrendo la crisi dei consumi (soprattutto nella ristorazione) di alcuni mercati chiave quale quello tedesco, ma i margini di crescita sono considerati ancora interessanti. Ecco che diventano appetibili per importanti investitori.
Per esempio nel luglio scorso Gtcr, un fondo di private equity con base a Chicago, ha acquisito per circa 18 miliardi di dollari la maggioranza di Worldpay, uno dei maggiori protagonisti americani del settore. Mentre restando ai business di casa nostra, di recente la stessa Worldline ha portato a casa per 25 milioni il ramo di merchant acquiring di Banca del Fucino. Si tratta di un’operazione minuscola rispetto a quella ricordata prima, ma significativa perché riguarda i contratti relativi ai servizi di pagamento che l’istituto di credito ha sottoscritto negli anni con i pubblici esercizi del territorio. E perché permette di capire come funziona il sistema.
Quando un cliente va al supermercato e accosta la carta al Pos per pagare la spesa, trasmette i dati della sua carta alla banca acquirente di cui sopra che a sua volta li trasmette all’istituto bancario del cliente. Nel momento in cui la transazione viene autorizzata, la banca acquirente recupera il denaro che ha anticipato. Per queste operazioni si pagano delle commissioni che negli anni sono state al centro di polemiche tra commercianti e istituti di credito. «In Italia il costo medio applicato agli esercenti dai principali operatori tradizionali è poco sotto l’1 per cento a transazione» spiega a Panorama Ivano Asaro, direttore dell’osservatorio Innovative payments del Politecnico di Milano. «Secondo i gestori dei vari punti vendita si tratta di costi ancora addirittura esagerati; la realtà è che siamo nella media europea. Negli anni e ancor di più con l’obbligatorietà del Pos (per ogni transazione rifiutata la sanzione amministrativa è di 30 euro più il 4 per cento del valore della transazione stessa, ndr) le spese si sono ridotte e soprattutto è stata praticamente eliminata la commissione fissa che rappresentava un aggravio eccessivo per le operazioni di piccolo importo. Poi certo, l’arrivo e l’espansione sul mercato di concorrenti come Satispay o SumUp ha accentuato questo processo di riduzione dei costi nel segmento delle micro-transazioni».
Costi o non costi, il business dei pagamenti digitali è destinato a crescere: si pensi per esempio in Italia alla distanza che c’è tra le aree urbane, dove sono diffusissimi, e la provincia dove i margini sono ancora molto ampi. E questo i grandi e medi player lo sanno benissimo, tant’è che continuano a fare a gara per portare a casa l’operazione più profittevole. Sempre nel luglio scorso è nato un secondo grande player nazionale, dall’alleanza tra Banco Bpm, Iccrea e Fsi (il fondo strategico italiano di Maurizio Tamagnini), un polo della «moneta automatica» che può contare su 9 milioni di carte, 400 mila Pos e circa 110 miliardi di euro di transato intermediato. Così come andrà compreso il ruolo che può avere sul mercato Bancomat spa, il consorzio di banche che gestisce il capostipite dei pagamenti elettronici in Italia che da pochi mesi ha un nuovo azionista di maggioranza relativa, il fondo strategico italiano di cui sopra. Tamagnini, che entrato con un investimento da cento milioni, sembra intenzionato a dare nuova linfa tecnologica e industriale alla società, trasformandola in un grande operatore europeo della transazioni digitali.
E parlando di competizione, va ricordato che a inizio 2023, la stessa Worldline (che proprio quest’anno soffre perché i suoi numeri crescono ma non quanto preventivato) non era riuscita a superare la concorrenza di Nexi, che si era aggiudicata il business delle transazioni della spagnola Banco Sabadell, pagato circa 400 milioni di euro. Nexi, appunto, la più importante azienda italiana di pagamenti che ancora non ha digerito del tutto l’acquisizione di Sia del 2021, operatore intorno al quale si sono concentrati gli interessi del mercato e di diversi operatori di private equity. Prima si è parlato di Cvc, poi di Blackstone e quindi del canadese Brookfield. Cosa c’è di vero? Di sicuro l’interesse e il fatto che il dossier sia stato studiato. Ma questo vuol dire poco o nulla, perché l’impressione è che prima che si arrivi a un’offerta e che la trattativa entri nel vivo sarà necessario che Nexi venda la rete interbancaria italiana che ha ereditato proprio da Sia e che rappresenta l’asset strategico più importante, perché trasmette i flussi di operazioni e informazioni di banche, Poste, società di gestione del risparmio ecc. L’infrastruttura è collegata sia alla Banca d’Italia sia alla centrale rischi e ovviamente ha un rilevante interesse nazionale.
Incassati i ricavi della rete e liberata da buona parte del rischio «golden power», che potrebbe essere esercitato dal governo, la società guidata da Paolo Bertoluzzo sarebbe pronta a finire nelle braccia di un nuovo fondo (tra i potenziali acquirenti della rete spicca il nome di F2i). A questo proposito, bisogna ricordare che la compagine azionaria di Nexi è abbastanza composita e variegata. All’interno ci sono diversi fondi privati oltre a società pubbliche, come Cassa depositi e prestiti e Poste, e chi ha un «prezzo di carico basso» è pronto a vendere, gli altri assi meno. Anche perché il titolo è passato dai massimi di luglio 2021, quando superava i 19 euro, ai livelli attuali poco sopra i 6 euro ed è zavorrato da più di 5 miliardi di debiti. In attesa di capire se davvero arriverà un’offerta per Nexi vale la pena soffermarsi su un’altra svolta che potrebbe rivoluzionare i pagamenti per gli utenti: l’euro digitale. La Bce ha dato inizio alla fase di preparazione che parte il primo novembre e avrà una durata di due anni per fissare le regole, sviluppare la piattaforma e fare sperimentazioni. Con gli euro potremo acquistare su una piattaforma ad hoc quelli digitali che poi conserveremo in un portafoglio digitale (wallet) per effettuare transazioni online.
Ma così non si rischia di azzoppare il sistema bancario? «Questa è una bella domanda a cui è impossibile rispondere» aggiunge Asaro del Politecnico di Milano «poiché mancano “le regole di ingaggio”. Sembra che l’euro digitale avrà dei limiti. Per quanto riguarda l’ammontare, per esempio, un privato dovrebbe poter detenere non più di tremila euro con una soglia pari a zero per gli utenti commerciali e le autorità pubbliche. Se tutto va bene, comunque, l’introduzione della divisa virtuale europea arriverà non prima di tre anni. E da qui al 2027 tante cose possono succedere».