Dall’agricoltura all’automotive passando per l’alimentare, in tutti settori è allarme per la crescita dei valori di produzione, mentre la grande distribuzione blocca i listini finali.
Va in scena una versione continentale di un testo «sacro» di Eduardo De Filippo. S’intitola Europa milionaria. Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, nei panni di Amalia interroga così Mario Draghi nelle vesti di Gennaro: «Come potremo tornare quelli di una volta? Quando?». Lui risponde: «Ama’, ha da passà ’a nuttata». Tutto gira attorno all’inflazione, linea di demarcazione degli interessi contrapposti. I costi salgono, i prezzi li vogliono stracciati sia il governo che la grande distribuzione per evitare il collasso delle domanda e le imprese rischiano il tracollo. Siamo ai bilanci pubblici contro quelli privati, alla finanza contro l’economia reale.
Né la Bce né l’esecutivo italiano vogliono fare i conti con l’inflazione. Il timore è presto detto: se si considera l’inflazione strutturale e non temporanea, allora i tassi a zero e l’acquisto titoli (che equivale a stampare moneta) sono veleno per l’economia. Il fatto è che i governi – il nostro in particolare – devono comprare tempo: cioè fare in modo che l’inflazione si mangi quanto più debito pubblico gonfiato dal Covid può prima che vada a scadenza e si debba rifinanziare a tassi crescenti. Del pari, Lagarde ha un problema: non strozzare la ripresa ma soprattutto non mettere in difficoltà l’Italia, ingombrante nel sistema euro come un elefante in una cristalleria con il suo debito mostruoso di oltre 2.734 milioni di euro. Allora meglio dire che l’inflazione c’è (in Europa è il 4,9) in Italia pure (3,8 ma con tendenza ad aumento) ma è passeggera.
Madame Lagarde, gaffeuse di caratura internazionale, si è lasciata andare anche a una riedizione di Maria Antonietta 2.0 affermando: «Lo so che è doloroso per chi fa il pieno di benzina oggi pagare tanto, ma si deve abituare e comunque non durerà». Con questa inflazione ma soprattutto con i prezzi dell’energia, delle materie prime, dei trasporti che sono fuori controllo c’è chi non ce la fa. Sono i cittadini privi di ammortizzatori rispetto al caro vita e sono i produttori che però non riescono a riversare sui listini l’aumento dei costi, pena il blocco della domanda che significherebbe fine del rimbalzo del Pil.
In Italia senza ripresa addio sostenibilità, anche psicologica, del debito. Il ministro dell’Economia Daniele Franco si bea del ritrovato rating dell’agenzia Fitch che ci ha alzato la considerazione a tripla B ed è un coro: la ripresa, la ripresa. Sicuri? Basterebbe applicare il «deflatore» calcolato dall’Istat. Il Pil che mette a segno il più 6,2% quest’anno se gli applichiamo il deflatore dell’1,2 scende al 5% reale e l’anno prossimo la crescita stimata del 4,6 con un deflatore calcolato al 2,2 cala al 2,4 in termini reali. Neppure a fine anno prossimo recuperiamo il volume economico del 2019, che peraltro non era un anno brillante. Ma al governo fa comodo che l’inflazione gonfi il denominatore del rapporto col deficit e il debito. La scommessa dell’Europa e dell’Italia è l’export perché abbiamo un euro anemico (1,12 contro dollaro). Ma se ci aiuta a vendere, quando compriamo energia è una mazzata.
Il prezzo del gas e del petrolio anche per effetto dei «certificati verdi» che Ursula von der Leyen ha raddoppiato è fuori controllo. Il combinato disposto di questi fattori fa sì che l’economia reale sia in sofferenza. A dire che il re è nudo ci ha pensato il ceo di Stellantis (il mega gruppo nato dalla fusione di Psa Peugeot con Fca-Fiat) Carlos Tavares: «La decisione è stata di imporre al settore auto un “boost” nell’elettrificazione, che allo stato attuale comporta il 50% di costi industriali in più rispetto alle auto a combustione. Non c’è modo per trasferire questo surplus di spesa al consumatore finale, proprio perché la maggior parte degli automobilisti in possesso di un reddito medio non sono in grado di sostenere questo aggravio di costi».
Con un mercato dell’auto che da quattro mesi cala del 30% in media! Il punto è proprio questo: le imprese sono nell’impossibilità di scaricare i costi sul consumatore finale già vessato dagli aumenti monstre delle bollette e con l’inflazione che galoppa.
L’Unione italiana vini sostiene che c’è sul comparto un maggior costo di almeno un miliardo. Italmopa, che rappresenta l’industria della farina, dice che ormai i costi non sono più compatibili con la prosecuzione dell’attività. Ivano Vacondio presidente di Federalimentare è chiarissimo: «O si fa pagare di più i consumatori oppure molte aziende non riescono a sostenere i costi». Anche Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, è durissimo: «La grande distribuzione non ci fa scaricare i costi sui listini, così non reggiamo».
Dopo la bolletta energetica la rincorsa folle ora è quella della bolletta alimentare e nonostante il blocco operato dalla grande distribuzione i beni di consumo sono aumentati del 3% in un anno, quelli strumentali del 15,7 e l’energia del 70. E che le cose non vadano bene lo denunciano gli indici dei costi di produzione. La Fao ha stabilito che quello dei prodotti alimentari è aumentato del 3,1 nell’ultimo mese, del 32,9% su base annua. A conferma viene l’appello degli operatori dell’ortofrutta italiani. Il presidente Marco Salvi anticipa: «Stiamo preparando i listini 2022 e dobbiamo fronteggiare aumenti di costo del 20%. I distributori non ci vogliono riconoscere alcun aumento, per noi i margini sono 10 centesimi al chilo di prodotto. Così non ci conviene raccogliere, né coltivare».
Per intendersi: non abbiamo pasta, frutta e verdura, carne e pagheremo carissimi elettricità e riscaldamento. Anche l’Istat certifica che tutti i costi alla produzione sono esplosi: in agosto era più 13,8, ma le rilevazioni avvertono che si va verso aumenti medi del 27%, a fine anno. Si continua però a predicare che l’inflazione è temporanea. Non la pensa così Confcommercio. Il presidente Carlo Sangalli esprime fortissime preoccupazioni: «Nell’ultimo trimestre, con prezzi al consumo in crescita fino al 4%, ci può essere una diminuzione dei consumi di oltre 3 miliardi rispetto a uno scenario con inflazione al 2%. Rischiamo di non recuperare i livelli pre-Covid».
Si calcola che per Natale ogni famiglia italiana spenderà meno di 160 euro: significa 10 miliardi sotto il 2019, in linea con il 2020. L’Istat a ottobre ha stimato una crescita dei consumi dello 0,1 in valore e dello 0,2 a volume, su base annua vuol dire un aumento del 3,7% in valore e del 2,8 in volume. Con l’inflazione al 3,8 le vendite reali sono in contrazione e anche l’online ha il segno meno: è calato del 3,7%. Non accadeva da cinque anni. Calma: ha da passà ’a nuttata.
Anche il mutuo ora torna a pesare
Continuano a spargere ottimismo i vertici monetari. Temono le manovre della Banche centrali sui tassi per
le ripercussioni sui bilanci pubblici, ma i bilanci delle famiglie già fanno i conti con il rincaro dei mutui. Kristalina Georgieva, direttrice operativa del Fondo monetario internazionale, ha illustrato a Bruxelles il rapporto sull’Eurozona e si è complimentata con l’Italia che va più forte del continente anche se la spesa corrente è un po’ alta. Aggiunge: «La politica monetaria espansiva della Bce rispetto all’inflazione continua a essere appropriata rispetto alla natura transitoria della crescita dei prezzi».
Se in Europa tornano le regole pre-Covid «servirebbero aggiustamenti irrealistici e controproducenti per i Paesi ad alto debito». Peccato però che l’Fmi scriva anche che restano «incertezze legate alla nuova variante Covid e quelle crescenti connesse all’inflazione». Lo sa bene chi possiede mutui a tasso fisso. In Italia il 41,3% della popolazione ne ha uno. I mutui immobiliari sono 3,8 milioni. Circa la metà a tasso fisso.
Ebbene l’Eurirs, che è il tasso interbancario di riferimento per tali prestiti, è passato dal meno 0,2 allo 0,56% (aumentato di 28 volte) e non se ne vede alcun rallentamento perché è determinato da due fattori: lo spread tra Bund e Btp (in lenta, ma costante crescita) e l’inflazione. Sulla rata media mensile che è di 350 euro l’incidenza è di circa 6 euro. Fermi invece i mutui a tasso variabile, ma anche il relativo indice Euribor si sposterà entro i primi mesi del 2022 dal terreno negativo (ora è a -0,50) a uno 0,3-0,4% con una «stangatina» sui mutui.