È in crisi la disciplina che Oltremanica fa parte dell’identità nazionale. Diminuiscono i praticanti nelle scuole pubbliche e private, dove si gioca fin da piccoli. Il timore di incidenti sul campo limita il numero dei ragazzi che si avvicinano alla palla ovale. Il calcio, al contrario, ha sempre più successo. Fermare il declino? Personaggi autorevoli dicono che sia obbligatorio tornare alle origini.
Vecchio rugby addio, la palla ovale perde punti tra gli inglesi. Ci mancavano le 23 eroine del calcio femminile a rovinare la piazza. Con l’entusiasmante vittoria agli Europei contro la Germania (lo scorso 31 luglio, in una partita giocata con un anno di ritardo causa Covid), le Leonesse britanniche della Nazionale hanno rialzato il morale del Paese e abbassato quello dei direttori sportivi di tutti i club e delle istituzioni scolastiche del Regno. Non bastava il confronto impietoso tra la performance perfetta delle giocatrici inglesi e il povero spettacolo della Nazionale di rugby, battuta nell’ultimo Sei nazioni da Scozia, Irlanda e Francia; le ragazze del football ora chiedono, legittimamente, più spazio anche nelle istituzioni scolastiche, dove i piccoli rugbisti invece diminuiscono anno dopo anno.
E lì, sui curatissimi campi da gioco delle scuole, soprattutto quelle private, dove il rugby ha sempre avuto la supremazia, che nasce la crisi di uno degli sport più amati dai britannici. Metà dei capitani della Nazionale degli ultimi 25 anni ha giocato su quelle distese di erba infinite volte. Il match del sabato mattina, nei tornei misti tra scuole private e pubbliche, è stato per decenni una tradizione irrinunciabile, fatta di grovigli nel fango, rispetto assoluto per le decisioni dell’arbitro, micidiali scontri frontali e amichevoli «terzi tempi» a base di tramezzini al salmone e succo di frutta nei refettori, dov’è obbligatorio presentarsi con la divisa della scuola, completa di cravatta. Un bel colpo d’occhio che nell’ultimo lustro ha però subito una battuta d’arresto, tanto che un rapporto ufficiale pubblicato dal Padsis, l’Associazione dei direttori dello sport delle scuole indipendenti, ha segnalato il minor numero di iscritti nelle squadre di rugby della storia recente.
A erodere il primato della palla ovale è stato proprio il calcio, quello sport in passato relegato alle classi sociali più basse, che ora piace sempre più anche ai genitori snob. Nato proprio da una costola del rugby e riconosciuto come disciplina ufficiale nel 1863, la sua storia è stata mirabilmente raccontata in The English Game, splendida serie prodotta da Netflix; ma la passione per il calcio in Inghilterra era stata sdoganata fin dai tempi di Febbre a 90’, il libro che ha consacrato al successo dello scrittore Nick Hornby. Il racconto irresistibile e ironico dell’amore sconfinato di un giovane insegnante per la squadra dell’Arsenal aveva fatto capire agli inglesi che il football non era riservato soltanto alla «working class».
Quattro anni fa, alla Rossall School nel Lancashire, tradizionalmente dedita al rugby, si è deciso di lanciare un programma di calcio. Durante il primo anno i bambini iscritti al corso erano soltanto tre, adesso sono 110 e le loro squadre rappresentano una delle maggiori forze per questa disciplina nel settore giovanile. Nella blasonata Emanuel School di Battersea, a Londra, se qualche anno fa qualcuno avesse chiesto di affiancare agli sport tradizionali come il rugby, il canottaggio e il cricket anche il calcio, sarebbe stato guardato come un eretico.
Quest’anno, per la prima volta nella sua lunga storia, la scuola gli ha aperto le porte e così stanno facendo molte altre, in cui fino a poco tempo fa questo gioco non era considerato ammissibile. Le cause del declino rugbistico sono molteplici, ma una delle più importanti va individuata nella sicurezza dei ragazzi. Il rugby è diventato uno sport sempre più violento e i suoi regolamenti favoriscono discrepanze notevoli tra i giocatori. Poiché le squadre vengono suddivise a seconda dell’età, capita spesso che a scontrarsi siano ragazzi di corporatura e peso molto diversi tra loro. La quasi totale mancanza di dotazioni protettive fa sì che gli infortuni, anche gravi, siano molto frequenti. «Le famiglie cominciano a essere sempre più preoccupate» ammettono dietro le quinte i dirigenti scolastici «e spesso optano per sport di contatto meno pericolosi e ugualmente appassionanti come il calcio».
La dolorosa storia di Dan Scarbrough, l’ex giocatore della nazionale inglese, balzata alle cronache quest’anno, ha acuito la crisi. A soli 43 anni, a quest’omone grande e grosso, dagli occhi gentili, che incarna il mito del gigante buono della palla ovale, è stata diagnosticata una grave forma di demenza, causata dalle innumerevoli commozioni cerebrali subite in 15 anni di carriera professionale, come sostengono i medici che l’hanno in cura.
Per questo motivo, Scarbrough si è aggiunto all’ormai lunga lista di giocatori in pensione che hanno fatto causa alle autorità della lega del rugby. I legali della Rylands Law rappresentano 150 giocatori, tra uomini e donne, che hanno sintomi simili a quelli di Dan. Lui è stato uno dei pochi a rendere pubblica la sua condizione e si è trattato di una decisione molto sofferta. «Non per la malattia in sé, da tempo sapevo che qualcosa non funzionava e ora che ne ho la certezza, ho accettato la mia condizione e faccio di tutto per superarla» ha raccontato di recente «ma per quello che il rugby ha significato per me in tutti questi anni, per quello che significa per i miei figli e per gli allievi della mia scuola».
Da quando si è ritirato dallo sport Scarbrough è direttore sportivo alla scuola secondaria di Bradford, nel nord dell’Inghilterra, ed è sempre stato consapevole che, una volta uscito allo scoperto, avrebbe alimentato i timori sulla sicurezza di questo gioco. «Il rugby ora è comunque molto più sicuro di quando ho iniziato a praticarlo io» ha spiegato. «Oggi sui campi c’è sempre un paramedico e un fisioterapista, a bordo campo si vedono le ambulanze. Se qualcuno riceve un forte colpo in testa, viene immediatamente sostituito, esistono linee guida molto severe da seguire, anche se non presenti alcun sintomo grave devi smettere di giocare per giorni. Quando avevo 11 anni, non esistevano limiti a quanti minuti potevi stare in campo, non dovevi indossare il paradenti, se ti facevi male l’allenatore tirava fuori la spugnetta magica dal secchio imbrattato di sangue e fango dei tuoi amici, ti detergeva un po’, i genitori applaudivano e via andare…».
Oggi non è più così, ma Scarbrough è convinto che si debba fare molto di più per limitare le centinaia di infortuni che ancora accadono nelle scuole e nei 1.900 club presenti nel Paese, in cui si fa fatica ad affrontare questo discorso, anche per una questione di cultura. Il modello del rugbista, «macho» dalla parlata colta, tanto caro alle elitarie scuole inglesi, è duro a morire. A incrinarlo, paradossalmente, è stato proprio l’allenatore della squadra nazionale, Eddie Jones, australiano di poca simpatia e parlata diretta, del cui licenziamento si è spesso discusso, ma che per ora rimane al suo posto. All’inizio di agosto ha fatto infuriare i dirigenti della Federazione dichiarando che i giocatori inglesi sono «troppo educati per vincere», crescono in bolle isolate create all’interno delle istituzioni scolastiche e delle accademie e diventano poi incapaci di inventarsi nuove strategie per reagire, una volta messi in difficoltà.
Secondo l’uomo che allena le star del rugby dal 2016, per battere la crisi bisogna partire dal basso, ribaltare il sistema. «In 7 anni che sono qui» ha ricordato «non ho mai visto dei bambini in un parco giocare a rugby. Mai, zero. Nell’emisfero sud lo fanno continuamente tutti e sviluppano le loro potenzialità. Il rugby qui s’insegna solo in ambiti limitati e formali, questo è il problema». Insomma, sembra suggerire Jones, è ora che questo sport si tolga la cravatta e si butti nella «mischia» – per rimanere nel gergo sportivo – con più fantasia, altrimenti il calcio avrà partita vinta per sempre. E sarebbe un peccato.
