Home » Come natura crea, l’anfora conserva

Come natura crea, l’anfora conserva

Come natura crea, l’anfora conserva

Chi lo ha detto che il vino buono riposa solo nelle botti di legno? In Italia sono moltissimi i produttori che, seguendo tradizioni millenarie, si affidano alle giare di terracotta. Con risultati di eccellenza. «È un po’ come rimettere l’uva nella pancia della terra» spiega a Panorama l’enologo Luca D’Attoma. «Quello che hai coltivato è quello che trovi alla fine».


Un’innovazione di 10 mila anni fa: il vino fatto nelle anfore. Succede da sempre in Georgia dove il «Kwevri» (si chiama così la grande giara) si passa ancora di padre in figlio per una vinificazione che potremmo definire arcaica se non fosse che è diventata attualissima. La celebrano per sentito dire i cosiddetti «enofighetti», quelli che in enoteca bevono secondo natura per sentirsi in pace con la coscienza e l’ambiente. Sono gli amanti inconsapevoli, ma molto influenzati dagli influencer, degli orange wine, vini che hanno avuto una lunga macerazione e spesso puzzano, ma non sta bene dirlo.

La tendenza arriva dagli Usa, dove se non hai qualcosa di «organic» da vendere sei fuori dalle fasce alte, ma è diventata subito italiana con un’evidente diversità: noi il vino lo sappiamo fare.

Così i vini in anfora sono usciti dalla nicchia per diventare un nuovo antico stile di degustazione: non alternativo, ma complementare. Come dice Luca D’Attoma – enologo toscano tra i primissimi a esplorare le potenzialità dell’antica viticoltura riportata ai giorni nostri – «c’è una condizione imprescindibile: i vini comunque tu li produca devono essere buoni e poi devono durare, un grande vino deve essere in grado di sfidare il tempo». Non tutti coloro i quali consumano bottiglie «naturali» sanno esattamente perché, molti obbediscono al verdoniano «famolo strano» che ha portato molti produttori sulla sponda «naturale», perché «così si vende».

Invece, per esplorare le antiche frontiere della vinificazione in anfora, che esige anche la coltivazione in biologico, c’è una profonda ragione culturale e «colturale» oltre il luogo comune. Chi pensa di essere dalla parte di Greta Thunberg stappando etichette naturali perché così lotta con il calice come San Giorgio contro il drago del cambiamento climatico, non sa che se beve vino è grazie a un riscaldamento globale avvenuto più o meno 12 mila anni fa: fu a causa del caldo che la vitis silvestris si trasformò in vinifera. Al termine della Glaciazione di Würm, quelle liane che fruttificavano bacche scure amarognole cominciarono a produrre uva da vino. Tra la Georgia e l’Armenia, non lontano dal Monte Ararat dove Noè prese la prima sbronza della storia per poi rivendicare l’invenzione biblica del vino, furono bravi a capire che si poteva cavarne sostentamento.

Ma com’e che l’anfora è tornata nelle cantine italiane? C’è stato un uomo carsico, sul finire degli anni Novanta, che dopo aver fatto fortuna con le barrique, i vitigni internazionali, i vini spessi e quasi cosmetici, ha deciso di tornare indietro. Quell’uomo si chiama Josko Gravner e si è incamminato per le radure della Georgia e lì ha trovato la nuova via. Nella regione di Kakheti, nelle grandi giare mettono mosto e bucce, le lasciano macerare a lungo e, finite le fermentazioni, liberano il liquido dalle fecce e lasciano lì il vino.

Tornato a Oslavia, Josko mise le grandi giare in cantina, sotterrate fino alla bocca, e ci fece il primo vino bianco a macerazione lunghissima e ancor più lunga fermentazione, usando l’uva del popolo: la Ribolla gialla. È nato così il primo orange wine, un bianco che vinificato come un rosso diventa arancio, e profuma di pietra e vento. Da Oslavia quell’idea ha percorso il Carso contaminando il gigante della viticoltura Stanko Radikon e poi giù, nei circoli dei primi produttori biodinamici.

A chi afferma che il vino in anfora sia un nettare di serie B risponde il produttore Francesco Cirelli. Lui ha iniziato 12 anni fa da ragazzino a fare vino in anfora nelle colline teramane. A Panorama spiega: «L’uso della giara significa affidarsi a uno strumento che rende migliore il vino. Non va raccontata come una rivelazione, semmai è l’esempio di come un’evoluzione possa partire da un ritorno all’antico. Oggi noi sappiamo che cosa succede dentro l’anfora. Certo è un lavoraccio, quando devi “svinare” lo fai tutto a mano, devi entrare dentro l’anfora e pulirla, ma i risultati sono esaltanti. Riesco a fare un Montepulciano d’Abruzzo molto elegante con tannini dolci, più in linea con il vino che si beve adesso. Per non dire degli eccezionali risultati che ho avuto con Pecorino e Trebbiano: i bianchi. Non faccio macerazioni estenuanti: per me un vino bianco deve essere bianco».

C’è da immaginarselo questo ragazzo che, come Zi’ Dima Licasi de La giara di Luigi Pirandello, si inebria nei suoi vasoni di terracotta. «Arriveremo a fare i vini solo con le giare» profetizza Luca D’Attoma. «Ho condotto esperimenti su tutti i vitigni: si hanno sempre vini molto minerali, armonici, meno alcolici, più equilibrati. L’ultimo che ho provato è un moscato giallo – vitigno delicato – per la cantina di Toblino, lì facciamo anche un Manzoni Bianco. In Trentino, cantine come Foradori hanno sperimentato il Teroldego, un rosso che in anfora acquista ancora maggiore eleganza. Poi ho provato in Maremma con Tua Rita e faccio il Keir sia bianco che rosso, e ancora il Vermentino e il Cannonau di Antonella Corda che ha dato tra i rossi esiti entusiasmanti. Ho provato col rosato a Bolgheri e il Pagus Cerbaia che è un gran vino, dalla Lucchesia (cantina Duemani) al riminese (cantina San Valentino) ho constatato che l’anfora esalta la territorialità perché ci obbliga a un migliore lavoro in vigna. La giara è un po’ come rimettere l’uva nella pancia della terra: quello che hai coltivato è quello che trovi alla fine. È dunque una pratica che si accompagna al biologico: altrimenti concentri nel vino i residui».

A questo punto la storia della giara diventa quasi esoterica: la terra che coltiva l’uva e la trasforma in vino. «Beh, un po’ di magia c’è» ammette Francesco Bartoletti della Fornace Artenova di Impruneta, vicino a Firenze. «Ma c’è soprattutto il rivalutare la terracotta come materiale nobile. Noi abbiamo avuto in un periodo di crisi, da lì l’intuizione di produrre questi vasi vinari: ne facciamo di capacità rilevanti, fino oltre i mille litri. Sfruttando la tecnica dei fornaciai di Impruneta che dal Medioevo sono i migliori del mondo e hanno avuto in dono una terra senza bisogno di smalti o verniciature: è un’argilla che traspira, ma non lascia passare il liquido. Le nostre giare non devono essere interrate, come fanno anche in Georgia per evitare la dispersione del liquido. Nell’anfora il vino respira».

La cantina Arcipelago Muratori, a Rubia del Colle in Maremma, da anni produce il Barricoccio, un sangiovese affinato in barrique sì, ma di terracotta. Prodotta ovviamente a Impruneta anche se oggi sono molte le fornaci (per esempio Gusmano Manetti al Ferrone, in Chianti, Capasuni a Grottaglie) che cominciano a misurarsi con le giare da vino: costo 1.500 euro, ma durata eterna. Per dirla con Giovanni Pascoli, c’è qualcosa di nuovo oggi in cantina, anzi d’antico.

© Riproduzione Riservata