Il mito dei guerrieri giapponesi esercita ancora oggi un potente richiamo. Il loro codice d’onore insegna a sopportare, senza lamentarsi, ciò che appare intollerabile.
»Quando diventa un samurai, l’uomo deve considerare come suo sommo dovere il non separarsi mai dall’idea della morte, giorno e notte, dal momento in cui prende in mano le bacchette per il primo pasto la mattina di Capodanno, fino alla sera dell’ultimo giorno dell’anno, quando fa il bilancio delle sue passate azioni. Se un uomo si ricorda continuamente della morte, sa vivere secondo i principi della lealtà e della pietà filiale, riesce a evitare un’infinità di problemi e di sventure, a proteggersi dalle malattie e da qualsiasi disgrazia».
Così scrive Daidoji Yuzan (1639-1730) nel suo Codice dell’apprendista samurai (Luni editrice). Il segreto è tutto in queste poche frasi: non separarsi mai dall’idea della morte. Lo sostiene anche un altro samurai, contemporaneo di Daidoji ma molto più famoso: Yamamoto Tsunetomo (1659-1719), autore dell’Hagakure, uno dei libri che più hanno contribuito a creare in Occidente il mito dei guerrieri giapponesi. Scrive Yamamoto, citando un sapiente: «La Via del samurai è la passione per la morte. Neppure 10 uomini insieme sono capaci di far vacillare un uomo animato da una convinzione simile».
A qualcuno potranno sembrare frasi altisonanti, roba da film in costume di Hollywood. In effetti i samurai siamo abituati a immaginarli così: personaggi da grande schermo, ammirati solo da qualche giovanotto esaltato con simpatie destrorse o da stravaganti cultori delle arti marziali. Eppure, scavando un po’ più a fondo, ci rendiamo conto che gli uomini d’armi orientali non sono così lontani da noi e hanno molto da insegnarci.
Come spiega lo storico Stephen Turnbull (I samurai, Gremese editore) la parola che indica i guerrieri significa letteralmente «colui che serve» e inizia a comparire intorno al X secolo. Nel Giappone medievale, tuttavia, il termine più comune per definire un guerriero era bushi, e stava a indicare più o meno chiunque svolgesse attività militare al servizio di qualche autorità, come chiarisce Michael Wert in Samurai (Il Saggiatore).
Chi perdeva il proprio padrone diventava un ronin («uomo alla deriva»), un mercenario pronto a imbracciare le armi per chiunque ne facesse richiesta. In Occidente, la figura del ronin ha avuto successo, ispirando tra l’altro uno dei capolavori a fumetti di Frank Miller (Ronin, appena ristampato da Panini comics).
Dobbiamo però tener presente che il termine samurai definisce una intera classe sociale, composta anche da persone che non si dedicavano al combattimento, sebbene per costoro la spada fosse un tratto distintivo: la portavano persino le donne, più corta e nascosta fra i vestiti.
Fu intorno al 1192 che gli appartenenti a questa classe assaporarono un grande potere per la prima volta, quando Minamoto Yoritomo istituì lo shogunato, autorità politico-amministrativa formalmente al servizio dell’impero ma in realtà parallela se non superiore ad esso. Quella fu l’epoca d’oro delle guerre samurai. A quel tempo la loro principale arma dei era l’arco, che poi avrebbe lasciato posto alla spada. E assieme a questa sarebbe arrivata la pratica spirituale.
A rendere così potente ancora oggi il mito dei samurai non sono infatti le armature colorate, le imprese eccezionali, le acconciature suggestive. Ma, piuttosto, il loro codice, il bushido, cioè «la via del guerriero». Agli inizi del Novecento il diplomatico e scrittore Inazo Nitobe ne sintetizzò i princìpi in un libro rivolto al pubblico occidentale: Bushido: l’anima del Giappone (Lindau). Egli spiega che il bushido è il «codice dei principi morali che i cavalieri erano tenuti a osservare». Ed ecco che l’apparentemente aliena cultura nipponica trova un enorme punto di contatto con l’Europa.
Nitobe scrive che una traduzione possibile di bushido è «cavalleria». Il samurai, il guerriero spirituale, è incredibilmente simile al cavaliere dipinto da San Bernardo di Chiaravalle nel trattato Lode della nuova cavalleria (Il Cerchio). È un guerriero che «combatte su un duplice fronte senza risparmiarsi, sia contro la carne che contro il sangue, e contro gli spiriti di nequizia che sono nei cieli». È un cavaliere che, prima di ogni altra cosa, dev’essere nobile nell’animo.
Nel Giappone moderno, a incarnare questa figura ci ha pensato Mishima Yukio, di cui Idrovolante edizioni ha appena pubblicato l’inedito La difesa della cultura. Mishima racconta del suo rapporto con la spada in Sole e acciaio: «L’acciaio mi mostrò quale rispondenza esistesse tra lo spirito e il corpo: emozioni deboli corrispondevano a muscoli flaccidi». Lo scrittore arrivò a praticare seppuku, il suicidio rituale, pur di opporsi alla decadenza morale della sua nazione, il che dà l’idea di quanto il codice d’onore samurai sia radicato nell’anima giapponese.
A chiarirlo bene è Mario Vattani, autore di uno splendido libro Svelare il Giappone (Giunti), utile a scoprire la realtà profonda del Sol Levante in questo momento di diffusa e superficiale nippomania. «Trovo che la cultura dei samurai, il bushido, un insieme di regole e comportamenti che sono stati imposti per secoli a una popolazione prevalentemente contadina, abbia lasciato il suo segno fin nel Giappone moderno», dice Vattani a Panorama. «Più o meno visibile, è sempre presente. Non solo nel cinema o nelle serie televisive, ma addirittura nei comportamenti, nelle regole su cui si fonda il sistema educativo sin dai primi anni dell’infanzia, nel vocabolario, nella lingua. Una delle parole giapponesi più conosciute al mondo è senza dubbio katana, il nome della leggendaria spada dei samurai. Tagliare, kiru, è un verbo che in Giappone ha nel suo stesso ideogramma la forma della spada. Il colpo che taglia la testa del nemico è andato a inserirsi profondamente nella cultura giapponese. Nel mio libro racconto come in guerra il samurai portasse con sé una kubi-bukuro, una “borsa da testa”. Ancora oggi, quando si parla di una persona che è stata licenziata, si dice kubi ni natta, dove kubi significa “collo”, o “testa”. Gli è stata tagliata la testa».
Anche sulle giovani generazioni il codice samurai esercita forte influenza. «I giapponesi imparano sin da piccoli a non lamentarsi» continua Vattani. «Lamentarsi è infantile, non è dignitoso. Un’altra regola che origina dal mondo guerriero, ed è oggi una virtù, un ethos che va sotto il nome di gamàn. Il termine ha un’origine buddhista. Significa sopportare ciò che appare insopportabile, con pazienza e dignità. Si è forti solo quando si sopporta. Come nelle arti marziali, meglio non far vedere che si prova dolore. Ci si rialza subito, si sorride, si scherza, perché diversamente si scenderebbe di un gradino rispetto agli altri. Essere gaman-tsuyoi è soprattutto segno di maturità, e vale per gli uomini tanto quanto per le donne».
Oggi che da noi la cavalleria e i suoi valori sono purtroppo estinti, forse dai samurai possiamo imparare questo ethos forte e dignitoso. Nella nostra «società del narcisismo» dove tutto è piagnisteo, non lamentarsi è un gesto straordinario, di cui sono capaci soltanto colore che hanno «consapevolezza della morte». In fondo, il protettore dell’Italia è un santo medievale che voleva essere cavaliere, e finì per essere un «combattente di Cristo». Si chiamava Francesco e chiamava la Morte «sorella».