Pablo Picasso, Giorgio de Chirico, Salvador Dalí: tre grandissimi artisti del XX secolo nelle loro ispirazioni e interpretazioni del maestro del Cinquecento. Un confronto dove Rinascimento e modernità attingono agli stessi valori universali. Così riapre il Mart di Rovereto.
Punto d’arrivo delle manifestazioni divise fra Roma e Urbino nel 2020, ecco la sorprendente mostra, al Mart di Rovereto, Picasso, De Chirico, Dalí. Dialogo con Raffaello a cura di Beatrice Avanzi e Victoria Noel-Johnson. La Avanzi fa ripetere a Giorgio de Chirico i devoti pensieri del Vasari: «Son quattro secoli che non è più, e se noi, oggi, […] guardiamo intorno l’arte che ci circonda, l’arte che sorse in questi quattro secoli che seguirono la sua morte, nulla troviamo che superi l’arte sua».
L’elogio di Raffaello è il de Chirico carico di spirito polemico, a tal punto devoto da definire lo Sposalizio della Vergine, ora alla Pinacoteca di Brera, «il quadro più completo e più profondo di tutta la pittura», tanto da ripeterne, in una visione stilizzata, l’idea del tempio nella sua Piazza d’Italia del 1913. Certo per de Chirico il dialogo con Raffaello è diretto e inevitabile.
Per Picasso, invece, al di là dell’omaggio più erotico che estetico al rapporto tra Raffaello e la Fornarina, che si sviluppa in 24 acqueforti tutte presenti in mostra, il problema con il grande artista, conosciuto nel 1917 nel viaggio in Italia per realizzare i costumi e le scenografie di Parade, era «dimenticare o ignorare Raffaello con schermaglie e dechirichiane alterazioni delle date come la visita alle Stanze vaticane (e alla Cappella Sistina) posposta dal 1917 al 1949». Già con acutezza Roberto Longhi aveva osservato: «Che Picasso non abbia mai preso vera confidenza coi classici italiani è chiaro dal fatto che egli ne parla sempre con citazioni retoriche, deferenti, distanti, quelle della cultura comune borghese (Raphaël, Michel Ange) che sono il primo segno della nessuna intimità con essi».
Racconterò qui un aneddoto personale: nel 1976 ero stato borsista alla Fondazione Longhi e avevo stabilito rapporti inevitabilmente difficili, ma non privi di affettuosità, con la terribile vedova del grande critico, la scrittrice Anna Banti. L’intrinsichezza, finito il periodo del lusinghiero pensionato, si manifestò con il mio tentativo, andato a vuoto, di farle vincere, sotto le pressioni del comune amico Ottavio Fabbri, il premio Campiello con il bel libro autobiografico dedicato alla memoria del marito, Un grido lacerante, il suo ultimo romanzo. L’abilità della mia testarda sorella, nella giuria popolare del premio, portò invece alla vittoria l’esordiente, benché 61enne, Gesualdo Bufalino con Diceria dell’untore. Anna Banti, già un monumento della letteratura, ne aveva 86 di anni, ma mia sorella non ne ebbe pietà e il suo voto fu determinante. Di un solo punto vinse Bufalino, staccando di molto la povera Banti.
L’accoglienza tiepida per il suo ultimo romanzo e la sconfitta al Campiello la fecero soffrire, come per espiare il suo implacabile distacco dalla realtà. Ma negli ultimi anni di vita, nonostante il mio fallimento nell’impresa veneziana (all’epoca ero direttore della Soprintendenza ai beni artistici del Veneto), iniziò a cercarmi e a stabilire con me una intimità mai prima dimostrata. Mi telefonava, mi invitata a tornare alla Fondazione Longhi e, un giorno, in pieno delirio, mi chiamò a Ferrara, di prima mattina, con fare perentorio, ingiungendomi di inviarle subito le bozze corrette per l’articolo su Paragone. È vero che in quel tempo io mandavo saggi alla rivista che, fondata da Roberto Longhi, era allora diretta da lei sia nella sezione di letteratura sia in quella d’arte.
Ma non mi sembrava di avere nessuna bozze da restituire. Osai chiedere allora a quali testi si riferisse, e lei mi rispose, con irritazione: «Stupido, ma Picasso e l’Italia!». Io tentai una giustificazione, ma non avevo mai (ancora) scritto un saggio su Picasso. Lei mi liquidò: «Sbrigati!». Dopo un attimo capii: mi aveva scambiato per Longhi. Sommamente lusinghiero, ma in un transfert impossibile altro che nel delirio. Si era semplicemente sbagliata, o aveva sentito nel mio carattere urticante e, come il suo, scomodo, una affinità con l’amato/odiato Roberto Longhi ? Tre anni dopo, la Banti morì. Racconto l’episodio perché, nel contributo dell’Avanzi, il giudizio di Longhi espresso in questo saggio è tanto utile quanto severo: «La notoria rapacità intellettuale di Picasso», capace di essere irriverente anche con Raffaello.
Più argomentata e sottile l’interpretazione di Victoria Noel-Johnson sull’approccio di Picasso a Raffaello, in «estasi infantile» nella denegata visita alle Stanze nel 1917, testimone invece Enrico Pampolini, con la bella introduzione picassiana: «A 12 anni disegnavo come Raffaello, ma mi ci è voluta una vita per imparare a dipingere come un bambino». Picasso ricusa la propria abilità, la «mano» dell’artista. La Noel-Johnson supera i più immediati riferimenti alla pittura antica e gli omaggi a El Greco, Velázquez, Ingres, Goya, Manet, e si applica al rapporto diretto, di confronto e sfida, con Raffaello, da Parade (1917), alle Maternità (1921/23), a Guernica (1937), alla Fornarina (1968). La Noel-Johnson insiste sulla formazione accademica di Picasso e sulla conoscenza dei capolavori de Il Prado. Gli accostamenti sono efficaci, a partire dal periodo blu fino alla Donna seduta del 1920, alla potente Maternità del 1921 e alla Donna con cappello bianco dello stesso anno.
La palese somiglianza, quasi una citazione, tra la donna in tunica gialla inginocchiata con le braccia rivolte al cielo, nell’Incendio di Borgo, e la figura femminile piangente con le braccia sollevate, di fronte a una casa in fiamme, in Guernica, è certamente una citazione. Resta l’ultimo artista sovrano scelto dalle due curatrici, Salvador Dalí, la cui osservanza raffaellesca è approfondita da Lucia Moni, con accostamenti penetranti e allusivi.
Bello il riferimento alla cartolina in cui la moglie Gala scrive a Dalí: «In omaggio a te, ho voluto a ogni costo a fermarmi a Urbino per salutare Raffaello». Ecco allora, nel 1921, l’Autoritratto con il collo e i capelli in dialogo con l’autoritratto giovanile di Raffaello. Commenta il pittore: «Guardandomi allo specchio amavo assumere l’espressione di malinconia, l’affascinante atteggiamento di Raffaello nell’autoritratto. Mi sarebbe piaciuto assomigliargli». La sezione di Dalí è la più sorprendente, per onesta affinità e siderale distanza, anche con riscontri puntuali del genere: «Gala è per me quello che la Fornarina era per Raffaello».
Altro che Picasso, che si deve limitare a litografare! Dalí, la Fornarina la porta a letto e gli è facile duplicarla. Ecco allora nascere, su quello spunto e con quel seno, Galarina. Poi sarà una nuova Santa Cecilia e poi, come la Madonna Sistina (citata in una fotografia con Gala nuda di spalle e altro), la Madonna di Port, la Vergine di Guadalupe. Una mostra esemplare, attraversata da capolavori come il ritratto di Madame Rosenberg con la figlia di Picasso, Il saluto degli Argonauti di de Chirico, a fianco delle Due figure mitologiche appartenente al Mart. Non si poteva meglio celebrare Raffaello, al culmine del suo ritardato centenario.