A un anno dalla scomparsa, nel generale appiattimento della cultura la figura di questo critico spicca più che mai. Geniale, controcorrente, beffardo: ha pagato caro il suo rifiuto del compromesso (alla Scala è stata anche «persona non gradita»), ma non ha mai rinunciato alla libertà di pensiero.
Li univano varie cose. L’essere quasi coetanei (lui era un po’ più grande): l’essere precoci; l’essere impertinenti; l’essere vanitosi; l’essere innamorati della letteratura. Ma un destino singolare ci avrebbe unito davanti alla storia, nella valutazione limpida, improvvisa, fulminante di Franco Cordelli che ci proiettò direttamente nella letteratura. Era forse il 1989: «Credo che dell’autentica letteratura – nel senso di sintomo di un rinnovamento della percezione – si sia letta nei saggi di critica musicale di Paolo Isotta e nelle prime cronache d’arte di Vittorio Sgarbi, un uomo il cui comportamento, così mondano e presuntuoso, è tutto da ascrivere a una lacerante rinuncia alle “grandi ambizioni”». Un giudizio lusinghiero e malizioso per me, una celebrazione per Isotta. Toccava a noi, alla nostra generazione, entrare nella letteratura, secondo lo schema di Gianfranco Contini, che aveva visto «autentica letteratura» nelle pagine di Roberto Longhi, concepite come «letteratura di servizio», quale è la critica.
Nessun dubbio che questo valga per Isotta, la cui scrittura è sempre colta, sorvegliata, vitale. Per anni avevo trovato i suoi elzeviri sul Corriere della sera densi di ironia, dottrina e sarcasmo. Risultava una sapienza umanistica che andava ben oltre l’enciclopedica conoscenza musicale. In lui si accompagnava un altissimo grado di indignazione per la mediocrità culturale di molti, non solo nel mondo della musica, e una incontinenza assoluta nel giudizio delle persone, tra scatenata ebbrezza e spudoratezza infantile. Non era implacabile o intollerante, come poteva apparire, ma incontrollabile nell’antipatia come indulgente nella simpatia.
Napoletano, figlio di un preparatissimo avvocato civilista, «ritiratosi piuttosto presto dalla professione col sostenere che gli era sempre più difficile trovare argomenti di così basso livello da esser comprensibili dall’ignoranza dei magistrati di oggi» e, prima del figlio, grande conoscitore di musica classica e lirica. Il padre gli aveva consigliato di fare l’avvocato perché «in tal mestiere» c’è posto «anche per i mediocri, mentre nella musica o si tocca l’eccellenza o si è un fallito. Il mio più gran rimpianto è non averlo ascoltato: oggi, con la mia intelligenza, la mia memoria, il rispetto acquisito per il lavoro ben fatto, sarei un professore di Diritto civile e i grandi clienti verrebbero da me col cappello in mano. Sono invece un impiegatuccio che dipende dal buon volere dei superiori».
Non è vero, ma è certo che il livello del conflitto con i mediocri, dopo anni di libertinaggio, lo porterà a essere chiamato «persona non gradita» alla Scala e, poco dopo, cacciato dal Corriere. Anche in questo caso, nel carattere e nella spregiudicatezza c’era affinità con me. Ma io – incredibile dictu – sono stato più avveduto e prudente, guadagnandomi qualche clamorosa cacciata di cui non ho sofferto. Isotta a un certo punto è stato travolto, essendo fino in fondo ciò che molti pensano sia io. Isotta è stato uno Sgarbi più estremo, più radicale e sincero, più convinto, indisponibile a risparmiare la verità su chiunque, musicisti, direttori, cantanti, scrittori. E se, fra mille vituperi, era pronto a lodare qualcuno non era necessariamente per merito, che nessuno come lui era in grado di riconoscere, ma per debolezza amicale, per amicizia partigiana, per inclinazione sentimentale.
Isotta era vero e credibile quando era cattivo, in modo impertinente, implacabile, intollerabile. Refrattario alla clemenza e all’indulgenza. Prodigo per pura simpatia umana, e in questo poteva essere più fazioso che nelle celebri stroncature. Al confronto della sua, ogni posizione critica appare finzione, teatro, gioco delle parti. Poi le opportunità, i commerci con il potere, i compromessi ci impongono silenzi, indulgenza, cui Isotta era indisponibile. I suoi giudizi liquidatori non prevedevano riserve, giustificazioni, reticenze. E, talvolta, lambivano i poteri forti della cultura, presidi mai toccati da nessuno. Non per protezioni politiche, spesso inesistenti, ma perché essi stessi più forti della politica, configurandosi come una dittatura culturale contro la quale nessuno aveva mai osato, con l’alibi della democrazia e dei diritti. Altri i diritti difesi da Isotta: quelli del sapere, dei grandi musicisti vilipesi da interpreti mediocri, da direttori presuntuosi, da registi prepotenti, invadenti e ignoranti. Contro questi tradimenti si scagliava Isotta, contro l’acquiescenza della critica che li favoriva, contro le complicità che consentivano il contagio dell’ignoranza.
Leggerlo, al di là della rispettabilità, delle buone maniere, dell’ipocrisia, era (è) liberatorio e salutare. Si era certi di non essere ingannati, ma si doveva professare un atto di fede nella sua dottrina. Intanto, prima di biasimarlo, occorreva ringraziarlo per i suoi incipit, e anche per il seguito, che ti rallegravano e rassicuravano sulla «responsabilità» del giudizio verso la storia e i grandi che l’avevano fatta prima che i mediocri tentassero di smontarla con la loro retorica fintamente democratica, per divulgare, reinterpretare, popolarizzare, modernizzare, delitto per cui mai nessuno prima li aveva processati e condannati.
Isotta combatteva contro una mafia culturale, radicata, diffusa, che ha permeato la falsa cultura del nostro tempo. Solo, con l’arma del sarcasmo e la superiorità della conoscenza, implacabile, senza risparmiare nessuno. E vuol dire non averlo capito, dopo la reazione scomposta del soprintendente della Scala, intesa come una punizione, scrivere, come fa, con indubbia e apparentemente condivisibile eleganza, Paolo Viola: «Chi l’ha conosciuto quaranta o cinquant’anni fa, giovane brillante musicologo a inizio carriera, lo ricorda come un bel ragazzo, simpatico ed esageratamente colto. Aveva memoria di ogni nota ascoltata e di ogni pagina letta, soprattutto aveva un’idea precisa e profonda della storia della musica e dell’interpretazione musicale, un’idea a tutto tondo, che abbracciava generi, secoli e civiltà. Molti, fra quanti lo hanno conosciuto negli ultimi anni, non hanno invece potuto fare a meno di detestarlo, per l’arroganza delle sue opinioni e per la banale cattiveria dei suoi giudizi».
Il malumore di Isotta, la sua proverbiale malmostosità erano una cifra, uno stile, una calcolata forma di autolesionismo per potersi consentire tutto, e anche il contrario di tutto, fino all’estremo capriccio; se è vero che, dopo l’adorazione, giunse al vituperio dell’idolatrato Riccardo Muti, come sa bene Viola, che pure scrive del «carattere iperbolico e apodittico dei suoi giudizi (…“il migliore di ogni epoca”… “il peggiore che abbia mai ascoltato»… ecc.) tendenti sempre a irridere alcuni – meglio se grandissimi, come Abbado o Pollini – e a magnificare altri, meglio se sconosciuti: l’importante per lui è épater les bourgeois e con ciò costruirsi la fama di supremo giudice che tutti sovrasta».
Non è propriamente così. Anche le reazioni umorali di Isotta hanno sostanza critica, sono «capricci» motivati da una lotta contro il potere che va oltre la musica stessa. E di cui la musica è stata strumento. O non è così, Viola? E vale per Abbado come per Pistoletto, e altri mostri sacri che dell’arte hanno fatto un’arma. L’insofferenza di Isotta poteva anche essere apparentemente ingiustificata, ma era un metodo, un presidio di libertà fondato sulla autorità riconosciuta della dottrina. Isotta era più colto, e insinuava dubbi e incertezze. Non era irriverente, era intransigente. Era rigoroso e capriccioso. E non risparmiava nessuno. Per quanto intuiva della nostra affinità, mi rispettava e mi guardava a distanza. Io lo tenevo in grande considerazione, e condividevo anche i giudizi più estremi, le impuntature, gli sberleffi, gli sfregi.
Credo che, con esclusione dello spirito imprenditoriale, Isotta avesse la stessa libertà e spregiudicatezza critica di Leo Longanesi, interprete controtempo dei limiti del suo tempo, durante e dopo il Fascismo. Critico con Mussolini, non pensò che, dopo di lui, fosse arrivato il migliore dei mondi possibili, e tenne alto il suo spirito critico. Eccone alcune illuminazioni: «Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce che rappresentano queste idee. L’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere chiamati». Isotta avrebbe sorriso e condiviso.