Basta con scatti in posa, foto alterate dai filtri e altre finzioni digitali. Le piattaforme che guadagnano utenti puntano sull’autenticità. La realtà saprà tornare a vincere sull’apparenza?
Tutto è partito da una finzione: Instagram ha avuto successo facendo sentire talenti provetti anche i fotografi più disastrati. Era l’effetto speciale dei filtri, che aggiungevano patine sognanti a scenari poco più che passabili, caricavano i post con massicci strati di make-up digitale. Mettevano, a portata di dito, moltitudini di artifici visivi.
È stato il tempo della «beautification», dell’abbellimento posticcio, di un selfie come di un paesaggio, di un volto quanto di una prospettiva. La riuscita di un contenuto stava nella sua rincorsa alla perfezione, nella capacità di tendere a quell’etereo traguardo. Ora non più, molto meno, se si esce dalla narrazione splendente degli influencer. L’utente comune ha voglia di autenticità, di ritrovare sullo schermo il mondo che lo circonda: più accessibile, poco affettato. Grezzo, però credibile, capace di suscitare empatia. Come ha scritto di recente il New York Times, «l’aspettativa di vedere post non eccezionali dai propri amici, rende gli utenti più generosi con gli altri e con se stessi». E ancora: «Le immagini di marciapiedi, animali, bambini, scrivanie… sono una specie di sollievo». La pandemia, la guerra, la matassa d’incertezze di questo tempo aggrovigliato, non ci hanno reso umili. Solo concreti, forse consapevoli che l’irraggiungibile sia davvero tale, perciò non è il caso di simularlo. Non si tratta di rinunciare allo straordinario, giusto tentare di godersi l’ordinario.
Ecco che nella lista dei social network più scaricati in Italia, accanto ai soliti noti – da Facebook in giù – nei dintorni della vetta compaiono nomi inediti.
Il più gettonato è BeReal, rivelatore sin dall’etichetta: «Il presupposto» lo ricorda Bloomberg, che gli ha dedicato un lungo approfondimento, «è mostrare il vero te». Non ci sono filtri, già questo suona come una sedizione profonda, una rottura del cerimoniale dello strumento. Chi lo scarica riceve una notifica, all’improvviso, in qualunque momento della giornata. Quando arriva scatta un timer e si hanno due minuti per pubblicare due foto: una che inquadra ciò che si sta facendo, l’altra un proprio selfie mentre lo si fa. Un trionfo del qui e ora, un carpe diem aggiustato sull’era degli smartphone.
Il sottotesto è evidente: in due minuti ci si può dare una sistemata ai capelli, scegliere un’inquadratura carina, certamente non fingere di essere in un ristorante stellato se si sta divorando un hamburger in un fast food. Né spacciare un camper per una suite, un autobus per una poltrona in prima classe, un ufficio per un atollo. BeReal è una reiterata celebrazione della normalità: un rito liberatorio, privo di qualunque barriera all’accesso. Forte di un incentivo sostanzioso: se non si caricano i propri scatti, non si possono vedere quelli altrui. Chi non si mette in gioco, non sbircia. Il voyeurismo generale arretra, il social ritorna negli argini del rito collettivo.
«Instagram e TikTok non sono più un luogo in cui gli amici sono solo amici tra loro. L’1 per cento delle persone crea contenuti per il 99 per cento degli utenti. E quel 99 per cento non ritiene che i propri contenuti o le proprie vite valgano la pena di essere condivisi» ha osservato in un’intervista Alex Ma, Ceo e co-fondatore di Poparazzi, applicazione che sta spopolando tra gli adolescenti negli Stati Uniti (il 75 per cento degli iscritti ha tra i 14 e i 18 anni) e comincia a prendere piede anche da noi. Il nome richiama la storica figura dei fotografi delle celebrità, il funzionamento è originale: a popolare le immagini sul nostro profilo, sono gli amici. Il filtro diventa il loro occhio, il nostro mezzo è il loro strumento: se non di clemenza, di sicuro sarà un atto di partecipazione.
È lo stesso moto che ha sancito il boom di Tellonym, app che consente di fare domande anonime a un utente e leggere le sue risposte, se questi decide di darle e renderle pubbliche nella sua bacheca. Il flusso di quesiti si tramuta in una specie di moderno diario, in cui si tenta di raccontarsi con onestà. I nostalgici troveranno affascinante il recupero della parola scritta, la sua rivincita sui video; gli ansiosi (a pieno titolo) ricorderanno la deriva di Ask.fm e servizi analoghi: nascondersi dietro una patina di segreto fomenta l’aggressività, la provocazione, può portare a episodi di bullismo, in particolare tra i ragazzi. La mancanza di filtri non sempre è un bene.
Rimane innegabile il peso specifico e la rilevanza dei social network, la principale prateria di aggregazione contemporanea. Secondo il recente rapporto «Digital 2022» a cura delle società We Are Social con Hootsuite, sono 43 milioni gli italiani che li frequentano, circa 2,2 milioni in più rispetto al 2021, per quasi due ore al giorno. Tra i più usati, accanto a Telegram, LinkedIn e Snapchat, spunta Discord, che conquista il 9 per cento degli utenti tra i 16 e i 64 anni. È un luogo accessibile dal telefonino dove ritrovarsi e discutere delle proprie passioni con chi le condivide: se non fosse un paragone un po’ forzato, verrebbe da dire che è un antipasto involuto del metaverso, il mondo virtuale dove abiteremo sottoforma di avatar. Un po’ come Mastodon, un Twitter con un moto ribelle incorporato: non c’è un controllo centralizzato, né algoritmi, né pubblicità. Più che anarchico, è un social libertario.
Se si vuole trovare una sintesi a tutto questo fermento, a imporsi è un bisogno di connettersi, in senso letterale. Non con una baraonda di sconosciuti, ma con chi conta o con chi può avere senso. Il motto di Newlife è «condividi ciò che sai, aiuta come puoi, chiedi ciò che vuoi»: una community dove dare e ricevere, alla quale si accede con il documento d’identità o lo Spid. Un pieno di trasparenza a fare da premessa. E da sostanza, pure nel caso di LiveIn: gli amici più stretti, le loro foto e i loro video, anziché nelle storie Instagram li si tiene sullo schermo dello smartphone, in bella vista, in ogni momento. Non sarà che siamo diventati soli e, più che autenticità, cerchiamo compagnia? n
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