L’uomo del dubbio che ha rivoluzionato il pensiero si spostava di continuo, inquieto e solitario, attraverso l’Europa. Un libro ne traccia i vagabondaggi dalla Germania alla Francia, dalla Svizzera all’Italia in cerca di un’armonia impossibile. D’altra parte, diceva lui stesso: «Io sono dinamite».
«Signore cerca confortevole appartamento al piano terra, fresco, silenzioso e in zona non commerciale. Rispondere con il codice FN246». Era Friedrich Nietzsche. Uno dei più grandi filosofi della storia, il dinamitardo del pensiero, colui che terremotò i codici morali della società, era un affittuario seriale. Nella seconda metà dell’Ottocento l’annuncio è finito sulle gazzette di mezza Europa, di sicuro da Basilea a Lucerna, da Lipsia a Sankt Moritz, da Marienbad a Genova, Venezia, Rapallo, Nizza, Jena, Torino. Poi il manicomio.
Malato e solitario, all’inseguimento dell’uomo nuovo e a sua volta inseguito dai suoi fantasmi, il figlio del pastore luterano di Röcken ha trascorso la vita in movimento seguendo una musica interiore (il Röcken Roll?), da un appartamento all’altro, da una città all’altra fra Germania, Svizzera, Francia e Italia. Chiedeva pace per i suoi dolori esistenziali e reali (agli occhi, alle viscere, alle ossa, ai nervi, ai polmoni refrattari al Nord, e poi febbri, allergie, un’enciclopedia medica ambulante), cercava il clima perfetto e l’armonia suprema, di trasloco in trasloco, di città in città. Perché «io non sono un uomo, sono dinamite».
Questo lungo e affascinante itinerario è il filo conduttore di un libro originale, Nietzsche on the road, sottotitolo «Quattromila chilometri verso la follia», scritto da Paolo Pagani (Neri Pozza). Non è una biografia classica ma un viaggio accanto a Fritz, come lo chiamavano mamma Franziska e la sorella Elisabeth detta Lama, perché da bimba sputava al fratello durante i litigi.
Da giornalista di lungo corso con la filosofia nel curriculum e nel sangue, Pagani siede discreto nello stesso scompartimento (quel treno per Jena). Cammina due metri dietro di lui mentre passeggia in Engadina con lo spettro di Zarathustra. Lo accompagna davanti al mare di Rapallo, della Costa Azzurra e della Costiera Amalfitana. Lo ascolta conversare con Richard Wagner nella villa di Tribschen sul lago di Lucerna. È nascosto dietro un cespuglio mentre Fritz – non si sa se più tronfio o più goffo – prova a fare colpo sulla stupenda Lou von Salomé, la donna perduta della sua arida vita sentimentale.
«Ho semplicemente viaggiato con lui, inesausto fugitivus errans, per scoprire dove e in quali situazioni nasca e si sprigioni il suo pensiero» spiega l’autore che già aveva applicato con successo il metodo due anni fa ne I luoghi del pensiero (sottotitolo «Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo»). «In Nietzsche opera e biografia si sovrappongono come la decalcomania al vetro o il ragno alla mosca. Ho seguito metro per metro il distruttore di mondi per 4.000 chilometri. Ho diviso la vita del grande nomade in tre blocchi geografici distinti: la Germania e il sogno di Weimar, la Svizzera delle vette e degli abissi, l’Italia e la Costa Azzurra nella brama di sole e di meridione. Sono sempre i luoghi che decidono la trama. Ogni tempo importante, in lui, abita un luogo».
Si fanno strani incontri viaggiando con Nietzsche. Durante una traversata sul lago di Lucerna nel 1871 il marinaio del ferry boat confessa sottovoce alla sorella, a proposito di un misterioso passeggero avvolto da un mantello: «Avete un compagno di viaggio di prim’ordine. Lo conosco, pesano sulla sua testa parecchie taglie di migliaia di lire. Ma è un uomo da onorare e io non lo tradirò». È Giuseppe Mazzini, esule ricercato da quattro polizie, in viaggio come loro verso Lugano attraverso il passo del San Gottardo.
Una sera in albergo, mentre attendono che una tempesta di neve si plachi, fanno conoscenza. «Mazzini, curvo sotto il peso degli anni e del dolore, ha un mozzicone artritico del sigaro Brissago nella mano destra. Nietzsche si liscia di continuo i grandi baffoni spioventi che gli coprono le labbra». Si parlano, si fanno i complimenti. Il giorno successivo si riparte in carovana ma la discesa in Val Tremola, fra pareti di neve e ghiaccio, è pericolosa. In una lettera Mazzini racconta che una delle slitte cade per 60 metri nella scarpata. «Precipitò al lato dell’abisso: fortunatamente fu fermata da qualche roccia a metà strada e sia i due viaggiatori sia il cavallo ne uscirono illesi».
L’aneddoto è utile per capire la cura del dettaglio, la minuziosa ricerca bibliografica, l’incrocio delle fonti di un saggio scritto con il passo del romanzo d’avventura. Pedinandolo on the road senza mai dimenticare i suoi devastanti capolavori (Ecce homo, La gaia scienza, Al di là del bene e del male, Così parlò Zarathustra), scopriamo un Nietzsche nuovo. Perfino più quotidiano, dolcemente ordinario. È convinto che la sua salute potrebbe migliorare se si sposasse ma non trova moglie. Mitico il consiglio di Wagner: «Santo cielo, sposi una donna ricca!». Quando l’amicizia con il grande musicista si romperà, Fritz gli darà del vecchio trombone e lo sostituirà con le note di Bizet. Tranne il venerato Johann Wolfgang von Goethe, agli scrittori germanici preferisce Mark Twain «le cui sciocchezze amo più delle accortezze tedesche».
In Italia impara a stare a tavola. Adora ossobuchi e broccoli, i vini della Valtellina (ma gli danno bruciore di stomaco). Ritiene che la più bella casa del pianeta sia Palazzo Pitti a Firenze. Mostra anche un certo senso dell’umorismo quando definisce Emile Zola «Gorgon Zola, un dessert intellettuale». Elegge domicili invernali Genova, Rapallo, Venezia, Sorrento, Riva del Garda (bisogno di sole) ed estivi Flims, Coira, Lenzerheide (bisogno di fresco). Soprattutto Sils Maria, il luogo dell’anima e dell’ispirazione durante le interminabili passeggiate in Val di Fex e in Val Roseg, sorpassato dalle stesse carrozze di oggi con i plaid scozzesi per le ginocchia infreddolite.
«Il baricentro è la vita, non oltre la vita. Siamo noi a costruire il nostro destino per trasformarci nei nostri stessi eroi». Il filosofo del relativismo, che ha ucciso Dio e ispirato le contraddizioni del pensiero del Novecento (anche di quello debole come Heroes di David Bowie e il «quarto d’ora di celebrità» di Andy Warhol) subisce la condanna più atroce: deve fuggire per tutta la vita inseguito dalla nevrosi che lentamente si trasforma in pazzia. Come ci spiega Pagani, il male oscuro bussa alla sua porta a Nizza, nella notte del terremoto del 1887. Nietzsche si trova lì e alle sei di mattina, alle prime scosse, scende in strada con il soprabito sul pigiama e passeggia fra le macerie. Poi scrive con prosa da bullo: «Viviamo nell’interessantissima attesa di colare a picco. Che divertimento quando le vecchie case sopra le teste sferragliano come macinini da caffè, quando il calamaio si muove da solo».
In un’altra lettera: «A Nizza l’epicentro del sisma non è stato sotto la terra ma nei sistemi nervosi». Stiamo parlando di un migliaio di morti. Al termine di un inseguimento durato decenni per le strade di mezza Europa, la follia lo raggiunge e lo aggredisce a Torino, a 46 anni. È la scena più celebre della sua vita, quella che separa il Nietzsche dell’Über (il concetto del «oltreuomo» o «superuomo» 150 anni prima che inventassero l’app per chiamare i taxi) dal Nietzsche del grande vuoto che lo accompagna verso la morte. È il 3 gennaio 1889, esce di casa per acquistare i giornali all’edicola di piazza Carlo Alberto. «Lo slargo è affollato di ronzini che aspettano un cliente. Da lontano scorge un vetturino che malmena una bestia ossuta. Con un urlo attraversa la piazza, si stringe al collo dell’animale come per consolarlo. Poi si accascia. Crolla a terra in lacrime, abbattuto da un colpo apoplettico».
L’aneddoto è bello ma non è certo che sia vero. Fritz è quasi cieco e i biografi si domandano come abbia fatto a vedere la frusta del crudele vetturino dall’altra parte della piazza. Di sicuro l’Anticristo torna in camera, si riprende. Ma farfuglia, balla nudo, canta, suona il piano al buio e si descrive come il successore del Dio morto. È la resa dei conti. «Sta danzando sull’abisso e il bordo è più sottile della carta velina». Poi ci cade dentro. Fine del viaggio.