Lo scrittore intreccia la vita durante il lockdown con i temi del suo ultimo romanzo. «Roma? L’ho riscoperta stupenda, anche se devastata dall’amministrazione Raggi». E racconta un sentimento che resiste al tempo. Una ricerca di assoluto che in «questo Papa sociale» non trova risposte.
«L’amore è come la tosse, non si può nascondere». Una frase attuale di questi tempi, dove uno starnuto in pubblico può essere letale. La pronuncia Vittorio Gassmann nel celebre film di Ettore Scola La famiglia. C’è molto di quell’atmosfera nostalgica nell’ultimo libro di Giorgio Montefoschi Desiderio (La nave di Teseo). L’amore si nasconde tra le pieghe crudeli del tempo e poi riemerge e non abbandona mai i due protagonisti, Livia e Matteo. Lei, bella e misteriosa, come la Micol dei Finzi Contini lo tiene agganciato a un desiderio, che negli anni diventa ossessione e poi struggente malinconia. Lo scrittore della borghesia capitolina nel giardino della sua casa romana ha appena finito di rileggere per la terza volta la Recherche. «Adoro Proust. Penso che sia vicino ai serafini e ai cherubini». E in questo momento di incertezze dice: «L’unica cosa che ha una fine è il tempo. Solo Roma resiste al suo dissolversi. Tu passi, lei non passa mai».
È Roma la vera protagonista del romanzo. Come le è apparsa durante il lockdown?
«L’ho trovata stupenda così deserta. Amo Roma, ma i romani a volte sarebbero da prendere a calci. Anche se in questa circostanza si sono comportati in maniera civile. A differenza della nostra sindaca».
Non le piace Virginia Raggi?
«La detesto. Come detesto tutto il Movimento Cinque stelle, penso sia la piaga attuale del nostro Paese. Sono una massa di incompetenti e presuntuosi. A cominciare da quel nanetto di Luigi Di Maio, che vendeva le bibite e con arroganza si è messo a fare prima il ministro dello Sviluppo economico e poi quello degli Esteri. Come se io pretendessi di fare il presidente della Bce. Durante la quarantena la sindaca non ha fatto niente per la città. I giardini sembrano la foresta amazzonica, praterie incolte.
La capitale fa schifo, tutto fa schifo. La cosa che mi indigna è che la Raggi grazie al coronavirus pensa di farla franca, di rimettersi in circolo».
Quando cadrà il Colosseo, cadrà Roma. E quando cadrà Roma, cadrà il mondo, scrisse Beda il Venerabile, monaco e storico inglese. È così?
«Questo senso della perennità è un po’ il sottostante, per usare un termine economico, del carattere infingardo, strafottente dei romani, che sanno che la città è eterna. È la perennità del tempo. Qui le rovine non sono rovine, ma ci nutrono ancora».
Anche il Premio Strega fece parte della perennità del tempo. Lei lo vinse nel 1994, come sarà la versione virtuale?
«Non ci vado più da molti anni. Gli Amici della Domenica, quelli che aveva un senso che votassero, sono morti. Adesso non so chi siano i votanti, ormai più di 600. Ci manca solo che convochino anche quelli che si fermano in autogrill. Era bello quando era un premio corrotto, governato dalla fantastica Maria Bellonci e poi dalla mitica Anna Maria Rimoaldi. Riuscivano ogni volta a premiare uno scrittore di valore. Adesso basta che scrivi un libro e ti danno il riconoscimento. Per carità. Comunque telematico sarà ancora più brutto. Fine dello Strega».
Cosa pensa dei libri in classifica?
«Non voglio dare giudizi. Soltanto a uno non mi sottraggo mai».
Prego.
«Elena Ferrante è una scrittrice da portinaie. E mi sono convinto di una cosa: sono tre persone. Una che conosce bene i bassi napoletani. Hanno fatto una triade, una trinità».
La trinità ha sempre avuto successo…
«Fra lei e Gianrico Carofiglio non si sa chi ha vinto di più. Ma poi perché lo chiamano sempre in tv? Spero che lo Strega lo vinca Sandro Veronesi, è un mio amico».
Come ha trascorso la quarantena?
«È stato un momento proficuo. Anche se in realtà ho continuato la stessa vita che faccio da 50 anni: scrivo, leggo, studio, passeggio, ora che non posso giocare a tennis. Esteriormente non è cambiato nulla. Interiormente questa clausura ha dato un ordine alla mia vita. E così l’ho sfruttata continuando a lavorare e capendo una cosa fondamentale».
Quale?
«Ci sono piccoli desideri che ci sembrano trascurabili. Perché li abbiamo sotto mano, come bere un caffè all’Hungaria, ai Parioli,
o passeggiare al Parco dei Daini. Certo non è che ho scoperto l’immortalità dell’anima, ma ho capito che gli italiani sono un gran popolo».
Davvero?
«Riusciamo a essere ordinati, quando ce lo chiedono, i nostri medici e infermieri sono stupendi, molte sono state le donazioni volontarie. Mi sono piaciuti: pronti, generosi, ubbidienti. Io credo nell’ubbidienza e questo al di là del coronavirus. E poi sa cosa le dico?»
Che siamo meglio di come sembriamo?
«No, che viviamo in un nuovo secolo dove Dio è molto lontano, non esiste. Qualcuno ha detto che il Terzo millennio o sarà spirituale o non sarà. È vero. Sono cattolico, ma non parlo solo del Dio dei cristiani. Penso a un punto di riferimento fondamentale per trovare l’equilibrio nella vita terrena. Tutto sommato anche il Papa parla poco di Dio».
Come può il Papa parlare poco di Dio?
Questo è un Papa sociale. Si occupa delle pensioni, dell’Inps. Io vorrei che mi parlasse dei misteri, dell’aldilà, della trascendenza».
Non si è commosso davanti alle immagini di Papa Francesco solo in piazza San Pietro?
«Assolutamente no. Era una bellissima scena, che andava bene per il film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza. Mi commuovono altre cose».
Quali per esempio?
«Sono facile alle lacrime. Mi intenerisco davanti a due persone che si amano. Quando a 21 anni lavoravo in televisione ricordo che il primo incarico fu una rubrica: Capolavori nascosti. Andavo in giro a scoprire il Paese. A quell’epoca, erano gli anni Sessanta, negli aeroporti del Sud c’erano ancora gli emigranti che partivano e le madri vestite di nero che venivano a salutarli. Io dovevo girarmi dall’altra parte, perché piangevo. Qualunque gesto di umanità mi commuove. Nel Vangelo Gesù piange una sola volta. Quando va da Lazzaro».
Il suo libro fa piangere.
«Racconto come il desiderio si intrecci al tempo che passa. È il tema fondamentale dei miei romanzi. Tutto finisce, ma per me questo è intollerabile».
È lo stato delle cose, come può non accettarlo?
«Perché mi piace la vita. Non posso pensare a un aldilà che non contempli questa vita».
Crede che ci sia un aldilà?
«Lo spero. Voglio rivedere mia nonna friulana che adoravo. Non riesco a immaginare un’interruzione tra questa esistenza e quella futura. Non penso che possa finire tutto così. Sarebbe uno scherzo da prete».
Quando a Bergamo sono passate le bare sui camion militari cos’ha provato?
«Un grande dolore e un senso di desolazione totale».
Il protagonista, Matteo, ha il terrore della morte. È lei Matteo?
«Sì, in gran parte sono io. Come me rifiuta la fine. Io non ho mai visto un morto. Sono stato fino all’ultimo istante con i miei genitori, ma quando se ne sono andati non li ho voluti vedere».
In fondo è «l’uomo senza qualità» di Musil?
«Ha ragione. I personaggi del romanzo moderno sono gli uomini della Terra desolata di T. S. Eliot, la folla anonima che attraversa il London Bridge. Siamo noi. Non si può più scrivere un libro come Il Rosso e il nero di Stendhal con un protagonista come Julien Sorel».
Eppure un tempo eravamo un popolo di eroi, santi e pensatori.
«Ci sono altri eroismi, altre sofferenze. Non vuol dire che siamo più piccoli. Siamo solo tutti uguali. Viviamo in un’epoca senza ideali, Dio è lontanissimo, la politica fa schifo. Cosa può succedere?»
Che il desiderio muoia. Sarà così?
«Siamo abituati a soddisfarlo immediatamente. Invece deve essere inesauribile. La mia protagonista si fa desiderare. Potrebbe essere una stronza, ma non è vero. Anche lei fugge da qualcosa che non riesce a capire: la sua insicurezza. Ce ne sono molte
di queste donne. Non è un’eroina. È solo una come tante».
Nella prima parte del libro l’amore ha il sapore nostalgico degli anni Sessanta, poi diventa un sentimento stantio, noioso, quotidiano.
«È come si amava negli anni Sessanta. L’amore non era facile. Una conquista, una tortura. Era bellissimo. Adesso una ragazzina sembra una quarantenne. È terribile e lo dico senza moralismo. A 15 anni vanno a fare i viaggi di nozze, a diciotto passano all’altra sponda perché hanno provato tutto».
Lei che amori ha vissuto?
«Io ho l’età per aver vissuto quell’amore. La scoperta del corpo femminile, del contatto, la nudità sono tutte emozioni meravigliose. Oggi si dice : “Ti amo e annamo”. È un delitto. Ho cercato di ripercorrere questo desiderio così tormentato e profondo. Faticando molto».
È faticoso per lei scrivere?
«Alberto Moravia mi raccontò di fare sei, sette versioni dello stesso romanzo, ogni volta buttando via la precedente. Io invece prima di cominciare mi faccio il segno della croce e poi non scrivo tantissimo, venti righe, quando va bene. Con la penna stilografica».
Quanto ci ha messo a terminare le 300 pagine del romanzo?
«Più di due anni. Lavorando tutti i giorni».
Cosa desidera ora?
«Solo una cosa pazzamente: andare in Grecia. Ci vado da sempre. Vorrei tornare a Schoinoussa, nelle piccole Cicladi, un’isola selvaggia».
Desidera ancora l’amore?
«Sì, certo. Desidero viverlo».