Meno delivery, più liberi
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Meno delivery, più liberi

Il boom di pranzi e cene recapitati a casa ha un difetto d’origine. Fa perdere il valore del cibo e della convivialità.

Nel mio piccolo ho già iniziato la controrivoluzione: niente più pizza a domicilio. La pizza si mangia in pizzeria, calda, bella, appena uscita dal forno. Oppure ce la facciamo in casa. L’altra sera mio figlio Lorenzo ne ha cucinate tre con le sue mani: erano meravigliose. Mia figlia Alice era stata in Toscana e ha portato un formaggio strepitoso. Un amico ci aveva regalato una torta. È stata una cena molto bella, seppur improvvisata: era la prima volta dopo settimane che riuscivamo a rivederci tutti insieme, figli grandi, fidanzati e fidanzate compresi, e c’era dentro quelle portate semplici il calore dei cibi scelti. Preparati. Sfornati con passione. Un calore che non può avere nessuna cena ordinata a Glovo tramite app.

Lo so: adesso mi prenderò un’altra volta del retrogrado. Lo so: durante il lockdown ci siamo tutti abituati. Lo so: è tanto comodo alzare il telefono e trovarsi dopo poco il cibo in tavola. Ma il grillo parlante può dire una cosa controcorrente? Non se ne può più del food delivery. Soprattutto: non lo si può far diventare il metodo normale di alimentazione. Un conto è la cena occasionale, il momento particolare, l’esigenza improvvisa. Ma se questo diventa (come sta diventando nelle grandi città) la regola quotidiana, allora c’è qualcosa che non va. Perché mangiare è da sempre un atto sociale, un momento d’incontro, sia che lo si faccia in famiglia sia che lo si faccia in trattoria, porta con sé un rapporto con l’altro, con chi ci sta vicino. Chiudersi in casa ad aspettare il fattorino rompe questo incanto. E riduce la cena a un tratto d’unto tra l’algoritmo e l’esofago. Un mero susseguirsi di ordino, Deliveroo e ingurgito.

Fra l’altro anche per i ristoranti la crescita del food delivery rischia di trasformarsi in una trappola mortale. Ovviamente, essendo la consegna a domicilio una gran moda, molti si sentono in dovere di offrirla: circa il 13 per cento del totale dei ristoranti italiani, secondo i dati dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, riportati dalla Stampa. Vi sembrano pochi? Beh, considerate che il servizio è attivo principalmente nelle grandi città, e tocca solo in modo marginale la provincia. In ogni caso sono il doppio rispetto al pre-Covid e gestiscono un fatturato che vale 1,8 miliardi di euro, con un aumento del 20 per cento nell’ultimo anno. Tanta roba, direbbe mio figlio (quello delle pizze).

La domanda è: ma il food delivery conviene ai ristoranti? La risposta è: mica tanto. Intanto perché i guadagni non aumentano in modo così vistoso: secondo un’indagine condotta da Inapp su un campione di 40 mila aziende, quelle che usano le piattaforme per le consegne a domicilio hanno avuto un aumento del fatturato medio del 79,8 per cento negli ultimi due anni. Per quelle che non le usano l’aumento è stato del 77,8 per cento. Non tanta differenza, insomma: il vantaggio di quelli che hanno aggiunto il servizio delivery è stato minimo. In compenso però questi ultimi hanno avuto svariati problemi, dal ritardo dei pagamenti (denunciato nel 92 per cento dei casi), a clienti persi per disservizi della app (segnalato dal 32 per cento dei casi), alla perdita del contatto con gli utenti e dunque alla perdita di controllo delle proprie relazioni commerciali. Di fatto molti di loro si sono sentiti ostaggio delle grandi piattaforme.

Succede sempre così: quella che all’inizio sembra un’opportunità per nuovi ricavi, si rivela invece una sottomissione al potere dei giganti economici. Che essendo giganti, dopo aver conquistato il mercato, cominciano a dettare legge: oltre a sfruttare i rider, mettono in ginocchio i ristoranti. Chi non ci sta è perduto. È il solito meccanismo, la solita trappola della comodità: ciò che la tecnologia fa apparire gratis o a buon mercato, in realtà viene poi pagato a caro prezzo. In termini economici, o di libertà di scelta, o di possibilità di essere indipendenti. Il risultato è che gli unici ad aver davvero guadagnato dal delivery sono proprio le piattaforme del delivery medesimo: infatti Glovo, Deliveroo e Just Eat nel 2022 hanno fatturato 358 milioni di euro, il 40 per cento in più rispetto all’anno precedente.

E i cittadini? Anche loro, attratti nella trappola della comodità, s’illudono di aver guadagnato molto dal servizio a domicilio. Ma è davvero così? Rinunciare a uscire, ad andare al ristorante, a incontrare lo chef e magari altri clienti, a godere dell’atmosfera, dell’ambiente e del servizio che ogni locale a suo modo offre è davvero un guadagno? E rinunciare a preparare insieme, foss’anche una pasta al pomodoro, a studiare la ricetta pensando ai familiari, a gustare insieme ciò che si è preparato con amore, è un guadagno? Fate i conti: scoprirete che con il delivery non si risparmia. Anzi, spesso si spreca. Si spende. E si mangia male. Io, a casa mia, sono riuscito a far partire la controrivoluzione dopo una pizza arrivata fredda e malconcia che ci ha fatti stare male. Ora parte la battaglia sul resto. Sarà dura. Ma ce la farò.

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Mario Giordano

(Alessandria, 1966). Ha incominciato a denunciare scandali all'inizio della sua carriera (il primo libro s'intitolava Silenzio, si ruba) e non s'è ancora stancato. Purtroppo neppure gli altri si sono stancati di rubare. Ha diretto Studio Aperto, Il Giornale, l'all news di Mediaset Tgcom24 e ora il Tg4. Sposato, ha quattro figli che sono il miglior allenamento per questo giornale. Infatti ogni sera gli dicono: «Papà, dicci la verità». Provate voi a mentire.

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