Un felino veloce, rapace, che ama muoversi nel buio. Così lo descrisse Goffredo Parise: «Un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto, che lascia dietro di sé l’impronta nitida e misteriosa dell’eleganza». Mario Schifano, l’artista che ha più segnato il nostro Dopoguerra, fragile e irrequieto, amante del futurismo e ossessionato dalla tecnologia, fu una figura leggendaria, con i suoi maglioncini attillati e i jeans a zampa d’elefante. Il fascino da gladiatore, con cui ha castigato principesse e nobildonne dell’età dell’oro capitolina. Suscitò passioni sfrenate di donne bellissime come Anita Pallenberg e Nancy Ruspoli.
Ma solo con la giovane moglie Monica De Bei ebbe un figlio, Marco. Amatissimo, che fotografava continuamente con la Polaroid. Mario Schifano con la voce dolce e strascicata di chi conosce quanto può essere lunga la notte è ora celebrato a Napoli alle Gallerie d’Italia, il museo di Intesa Sanpaolo (dal 2 giugno al 29 ottobre, info: www.gallerieditalia.com). Una mostra sorprendente dal titolo Mario Schifano: il nuovo immaginario. 1960-1990. Un’esposizione raffinata, curata da Luca Massimo Barbero, con rigore e senza sbavature. Un teatro sofisticato dove non c’è mai la ricerca dell’effetto, piuttosto la restituzione dell’immensa qualità dell’artista. Pop star più che enfant prodige della nostra timida Pop Art. Oltre 50 opere, dagli anni Sessanta ai Novanta, provenienti dalla collezione della banca, da importanti istituzioni culturali, con la collaborazione dell’Archivio Mario Schifano.
«È il più grande creatore di immagini che l’Italia abbia espresso dagli anni Sessanta in poi» spiega il curatore associato delle collezioni Moderna e Contemporanea di Intesa Sanpaolo. Schifano nasce nel 1934 nella Libia italiana, a Homs, dove il padre era un archeologo. Quando la famiglia, durante la guerra, fugge in Italia si ritrova a vivere a Cinecittà, allora trasformata in un campo profughi. Detesta lo studio, ma con il padre lavora al Museo etrusco di Villa Giulia. E la mostra si apre proprio con quei rarissimi, preziosi primi lavori, i Monocromi, eseguiti tra il 1960 e il 1962: «Ricopiava i frammenti su carta, il nero assoluto dei vasi, i miti, particolari di immagini di Storia, che sono già reperti futuri. La mostra è tutta incentrata su questa capacità di ridisegnare il mondo» continua il critico.
Già all’esordio la realtà appare filtrata da uno schermo, una diapositiva. Inquadrata, come se così non dovesse più sfuggire. Come quella terra d’Africa che aveva dovuto abbandonare, un passato che lo possedeva ancora, le radici tagliate che continuano a tornare. «È stato creatore di immaginari, non di immagini. Ha usato i media quando nessuno lo faceva. Amava incredibilmente la tecnologia, comprava cineprese, macchine fotografiche, computer e stampanti. Ha iniziato il rapporto con la rete prima di tutti. Perché aveva la velocità che gli serviva. Un precursore con un’ossessione pioneristica per la televisione, il cinema, i video». Vorace e profetico.
Secondo Barbero, aveva la capacità, tutta italiana, di coniugare l’umanesimo della Storia (e della storia dell’arte) con nuovi orizzonti. Dipingeva sempre, ovunque. Onnivoro, inarrestabile. Come scrisse il critico Maurizio Calvesi: «C’era in lui un’avidità di vita, già allora voleva tutto, specialmente quello che non aveva mai avuto». Con i primi guadagni si comprò una MG bianca e senza patente andò a schiantarsi contro un palo.
«Aveva una assoluta fiducia nell’avvenire. Ma invece degli scenari più semplicistici, capitalistici, dell’America di quegli anni, reinterpretava la sua quotidianità antica e moderna insieme. Anziché guardare ai supermercati scendeva nel nostro inconscio metafisico. E quindi anche le insegne, le icone della società dei consumi si sposavano, non solo con la Storia, ma con le strade, i segni per terra, un’architettura rinascimentale piuttosto che un grande maestro del Novecento. Sradica il concetto di passato, dove guarda ogni cosa diventa contemporanea, dannatamente viva».
Schifano è Tutto, come il titolo del film a lui dedicato. Riduttivo relegarlo solo nella Pop Art, è una lettura ormai datata. E lo si capisce guardando l’opera in mostra Grande pittura, del 1963, che introduce il tema delle insegne rappresentate dalle scritte iconiche dedicate al Tigre della Esso, alla Coca Cola, ai segnali urbani che caratterizzano la sua ricerca nei primi anni Sessanta. «Osserva la sua arte da dentro, la vive da fuori e la riproietta. Quello che scopriamo oggi è uno Schifano contemporaneo, lontano dall’emulo di Andy Warhol, antitetico alla noia di un certo tipo di ripetitività. Ha la stessa irregolarità creativa di Giorgio de Chirico. Li vedo vicini, anche nell’ironia con cui si prendono gioco del mercato. Ormai la narrazione dell’artista dannato è superata».
Quella dell’artista maudit, sei volte in galera per droga (ma una volta ci andò per salvare l’amica baronessa Afdera Franchetti), rinchiuso anche in manicomio criminale. Quella dell’uomo fragile e delle feste nella casa-studio a via delle Mantellate, dove si passavano le pipe d’oppio. Eppure, detestava sentirsi chiamare maledetto, lo trovava terribilmente banale. «C’è poco da essere maledetti» diceva. E ripeteva una frase di Lucien Freud: «The man is nothing, the work is everything», non è l’uomo che conta, ma il suo lavoro. Alieno, spaziale, meccanografico.
Il grande corridoio dell’architetto Marcello Piacentini è impressionante: le opere sembrano emersioni di immagini dal buio. Per la prima volta saranno esposti insieme i Paesaggi TV. L’allestimento evoca una sorta di quadreria barocca con immagini catturate direttamente dal tubo catodico: «Sono i monitor dove appaiono i grandi maestri da De Chirico a Leonardo Da Vinci e Pablo Picasso. E poi la politica, la cronaca, la guerra. E sopra ogni cosa troneggia il suo essere personaggio rutilante, una specie di immenso Rubens. Carnale, vitale. Un uomo che ha vissuto di paradossi». Aristocratico e rivoluzionario, profondissimo e lieve.
L’avvocato Gianni Agnelli gli commissionò un lavoro per la sala da pranzo della sua casa romana, di fronte al Quirinale. E Schifano dipinse Festa Cinese, sette metri e mezzo, che sarà esposto nel Salone Toledo al primo piano del museo nello storico edificio del Banco di Napoli. «Siamo nel Sessantotto, ma per lui è solo un pretesto per fare immagine. Era un uomo che viveva attraverso le classi».
Come il lutto non si addiceva ad Elettra, così il tableau non andava bene all’Avvocato. Troppe bandiere rosse, troppo potere al Dragone.
Eppure, ancora una volta, eterno Mario, da vero combattente dell’arte qual era, aveva capito tutto. E con mezzo secolo d’anticipo.