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La vita è una scalata

La vita è una scalata

Misurarsi con la montagna per oltrepassare il limite (nostro, della natura), ma non solo. Il richiamo primordiale delle vette rimanda ai grandi spazi, alla luce dell’infinito, a una salvezza raggiunta attraverso il pericolo. Come raccontano alcuni, affascinanti libri.


Talvolta bisogna passare attraverso il buio totale per imparare a vedere la realtà. Accadde ad Aldous Huxley, il romanziere del Mondo nuovo, che soffrì sin dalla giovane età di un grave indebolimento della vista, e anche per questo s’indirizzo all’esplorazione di altri universi, varcando le «porte della percezione». Una sorte curiosamente simile fu quella di John Muir, autore meno noto ma altrettanto importante. Nato in Scozia, a Dunbar, nel 1838, a 11 anni emigrò con la famiglia negli Stati Uniti, dopo che il padre aveva acquistato un appezzamento di terra nel Wisconsin. Uomo di genio, grande amante della letteratura, aveva pure uno spiccato talento per la tecnica. S’improvvisò inventore, con un certo successo: creò addirittura una macchina per sfogliare automaticamente le pagine dei libri.

Nel 1867 trovò un impiego in una fabbrica di carrozze, e divenne così bravo sul lavoro che i suoi capi pensarono di prenderselo come socio. Almeno fino all’incidente. Un giorno, lavorando alacremente come al solito, si ferì agli occhi con un punteruolo. Perse quasi del tutto la vista all’occhio destro e, per un periodo, anche il sinistro rimase al buio.

Fu nella notte della malattia che John Muir decise di cambiare vita, e iniziò il percorso letterario, spirituale e politico che lo porterà a diventare il grande padre dell’ecologismo americano, il primo e più strenuo difensore della Wilderness, la natura selvaggia. I suoi scritti sono ora raccolti nella splendida antologia Andare in montagna è tornare a casa (Piano B edizioni): un condensato del pensiero di un «maschio selvatico» ante litteram.

Nemico della tecnica strabordante, la sua era «non cieca opposizione al progresso, ma opposizione a un progresso cieco». Perdendo la vista, Muir aveva cominciato a vedere e a sentire il legame con i grandi spazi americani: i fiumi, i ghiacciai, le foreste. E, soprattutto, le montagne. Come scrive Alessandro Miliotti, Muir «è il primo uomo ad ascendere le cime del Cathedral Peak e del Ritter, arrampicandosi da solo, senza corde, ramponi né abbigliamento tecnico, anni prima che l’alpinismo esistesse come “sport”». Sembra anticipare, in qualche modo, il rapporto con le vette che sarà poi di Reinhold Messner, il montanaro che, nota Francesco Tomatis in Filosofia della montagna (Bompiani), «incarnando una “filosofia della rinuncia”, nell’alpinismo rifiuta, non avendone mai fatto uso, bombole d’ossigeno compresso, chiodi a espansione, telefonini cellulari e in genere ogni artificio tecnico con cui si tenti sempre più di neutralizzare il pericolo proprio della montagna».

Questi uomini non cercavano di fuggire la fatica, anzi vi s’immergevano. Per loro, scalare la montagna era come perdere la vista per poi rivedere la luce: un percorso attraverso il buio, doloroso, apparentemente infinito, che però conduce sulla vetta, aperti a un più grande sguardo sul mondo, questa volta nutrito dal sole e dall’ebbrezza divina. Scalare, insomma, è un cammino di miglioramento che, dall’oscurità della notte conduce a una nuova alba.

Al termine della fatica, si scopre di essere in più profonda comunione con il creato: «Andare in montagna è come tornare a casa» scrive Muir. «Tutte le strane cose in cui ci imbattiamo in queste terre selvagge sono in un certo modo familiari, e quando le guardiamo abbiamo un vago sentore di averle già viste prima». Forse perché, appunto, sulle cime si riscopre il legame fra il microcosmo umano e il macrocosmo naturale.

Raggiungere tale consapevolezza, tuttavia, comporta uno sforzo che non tutti sono in grado di affrontare. E qui c’è tutta la meraviglia dei greci, che trovavano il senso più vero di ogni cosa: ricorda sempre Francesco Tomatis che nella lingua ellenica esiste una affinità tra le parole oros e horos. La prima, oros, indica il monte. Horos invece è il limite, il confine, il solco, il riferimento. Oros, poi, discende a sua volta da eos, cioè l’aurora. Ecco dunque che l’ascesa diviene ascesi, e dopo le fatiche brute della salita si arriva a vedere l’aurora, il sole che sorge di nuovo. Il monte, poi, è confine. Nel senso che insegna agli uomini i propri limiti, quando vuole li ricaccia indietro, non si fa mai domare, al massimo accetta di essere percorso, ma non di essere conquistato.

Certo, l’idea della scalata come superamento dei limiti e come battaglia spirituale è diventato, ormai da tempo immemore, un luogo comune. Tanto che c’è chi affronta tutta la faccenda con ironia, come fa il francese Pierre Jourde in Il Tibet in tre semplici passi (Prehistorica). Il romanzo racconta appunto l’esperienza dello scrittore in Tibet con alcuni amici, alpinisti improvvisati, burloni che per i motivi più vari vogliono misurarsi con una vetta, seppure non una delle più inaccessibili, ovvero Zanskar. A un certo punto, si mette male. E d’improvviso il tono scanzonato, quasi satirico che ha coinvolto e fatto sorridere il lettore assume un taglio di dramma. Perché scherzare si può, ma fino a un certo punto, e Jourde sembra esserne pienamente consapevole, anche quando si dedica – con una scrittura che ha del meraviglioso – a sbriciolare la retorica dell’ascesi montagna.

Diversissimo è l’approccio di Sylvain Tesson ne La pantera delle nevi (Sellerio). Un altro francese, di nuovo il Tibet: qui la ricerca di un animale quasi mitologico, la pantera, torna sui binari antichi. L’inseguimento della bestia poderosa diviene una sorta di cerca, come quella del Santo Graal, che non a caso prevede l’arrivo al Montasalvat, cioè la montagna della salvezza, dove Parsifal fa ritorno, nella cappella dei cavalieri, il giorno del Venerdì santo, una volta completato il suo cammino spirituale. Anche lui ha attraversato il buio per vedere l’aurora di una nuova consapevolezza.

In fondo, in tutte le culture del mondo le montagne sono associate al sacro: lo ricostruisce perfettamente Veronica della Dora in La montagna. Natura e cultura (Einaudi). È dall’osservazione delle vette – per esempio – che i cinesi trassero l’idea dello ying e dello yang, il lato in ombra del monte e quello alla luce. Ed è sempre su una cima, alla Verna, che San Francesco riceve le stimmate, mostrando che le montagne sono i «centri del mondo», i luoghi in cui l’uomo vicino alla terra può seguire al meglio quello che Claudio Risé chiama «lo slancio verso l’alto» e avvicinarsi al divino.

Le parole più precise le ha probabilmente scritte Julius Evola nelle sue Meditazioni delle vette (Edizioni Mediterranee). Egli era profondamente contrario alla moda dell’alpinismo, proprio come John Muir avrebbe voluto preservare il lato selvatico (e «salvatico», capace di salvare) delle cime. Di fronte alle prodezze picaresche di un Pierre Jourde si sarebbe probabilmente inferocito. Ma sapeva comunque che la forza della montagna è invincibile, e chiunque – anche il meno avvezzo alla meditazione – non può non avvertire una potenza avvolgente una volta asceso. «Nella lotta contro le altezze e le vertigini montane» scriveva Evola «l’azione è libera da tutto ciò che è macchina, da tutto ciò che attenua il rapporto diretto e assoluto dell’uomo con le cose. E nell’imminenza del cielo e dell’abisso – fra l’immota, silente grandezza delle vette e la veemente implacabilità dei venti e della tormenta, fra la chiarità disincarnata dei ghiacciai o sulla feroce, chiusa verticalità delle pareti – quanto mai è prossima la possibilità di ridestare, attraverso ciò che sembra un semplice esercizio del corpo, il simbolo di un superamento, una luce virilmente spirituale, un contatto con le forze primordiali chiuse dentro le membra».

È tutto lì: il superamento, il contatto con le forze primordiali. Si può anche riderne, come no. Basta sapere che, spesso, questo riso cela la paura

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