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Se l’amore (im)possibile diventa terapeutico

Se l’amore (im)possibile diventa terapeutico

Negli anni del governo Thatcher, in un’Inghilterra fortemente razzista, una cassiera depressa di in un cinema decadente si innamora di un giovane di colore che fa la maschera. Insieme provano a vincere nella vita, soli contro tutto. Il regista Sam Mendes, autore di capolavori come American Beauty, racconta a Panorama il suo ultimo film Empire of light di cui è anche sceneggiatore.


«Durante la lunga chiusura dei cinema a causa della pandemia, quando nessuno poteva uscire di casa, mi è venuto l’impulso di scrivere un film, una cosa che non faccio praticamente mai» racconta Sam Mendes, 57 anni, regista britannico autore di capolavori come American Beauty e Revolutionary Road, ma anche di ben due Bond film girati di seguito, Skyfall e Spectre. «È stato così che è venuta fuori la sceneggiatura di Empire of Light». Film acclamato nei festival e al cinema dal 2 marzo.

Siamo in una sonnacchiosa cittadina costiera inglese nei problematici anni Ottanta del governo Thatcher, in cui la tensione sociale per la disoccupazione è altissima. Hilary (Olivia Colman) gestisce la cassa e la sala del maestoso e un po’ decadente Cinema Empire, sotto la direzione di Mr. Ellis (un Colin Firth azzeccatamente sgradevole), che ogni tanto la convoca nel suo ufficio per una sveltina, forse illudendola che lascerà la moglie per lei. La donna, che è in cura con il litio per la depressione e nasconde una lunga scia di problemi nelle relazioni con gli uomini, accoglie con sorpresa l’arrivo della nuova maschera Stephen (Michael Ward), un giovanotto le cui aspirazioni di architetto sembrano tarpate dal fatto di essere nero in un Paese sempre più razzista. Durante una visita alle sale ormai dismesse dell’immenso cinema, i due outsider si baciano e inizia tra loro una tenera quanto inusuale relazione, complicata dai rispettivi problemi.

«Ci sono tanti film significativi che celebrano la sala cinematografica come Nuovo cinema Paradiso o The Majestic» spiega Mendes «ma non ho voluto in nessun modo celebrare quella magia. Leggevo sul giornale che tante persone soffrivano di problemi psichici a causa del lockdown e mi è riaffiorata alla mente una storia molto personale, che ho vissuto quando ero bambino prima e ragazzino poi: ovvero la malattia mentale di mia madre, perché è qualcosa che mi ha segnato profondamente. Poi ho visto in tv il rigurgito razzista che si era risvegliato proprio a causa di questa sofferenza globale e così ho pensato a quando andavo al cinema, agli anni di scontri che a volte insanguinavano le strade della Gran Bretagna, ma anche a quelli in cui formavo i miei gusti cinematografici. Anche l’illuminazione di diventare regista mi arrivò ma molto più tardi guardando Paris, Texas di Wim Wenders».

La scrittura, racconta l’autore, è stata particolarmente difficile, perché ha dovuto far riaffiorare ricordi dolorosi: «Non è semplice calarsi nei panni di sé stessi a 12 anni e rivedere con la memoria il film degli esaurimenti nervosi di mia madre, ma ho cercato di farlo con il necessario sguardo distaccato. Però la vicenda del film non ricalca quella reale perché mia madre non era in grado di parlare agli altri della propria malattia. Devo ammettere che ho pensato da subito di affidare il ruolo all’immensa Olivia Colman (premio Oscar, quattro anni fa, per l’interpretazione di La favorita, ndr). E probabilmente avrei chiuso il progetto nel cassetto per sempre se mi avesse detto di no».

Risponde la Colman: «Ho accettato subito senza sapere bene quale fosse il progetto perché, suvvia, non si può rifiutare un film di Mendes. Quando mi ha raccontato qual era il personaggio ho sentito un’enorme responsabilità, ma per fortuna Sam, trattenendo le emozioni, mi parlava di sua madre. La cosa che mi ha messo particolarmente in difficoltà è stato cercare di capire come mutasse il suo stato d’animo dopo che assumeva il litio».

Una parte significativa del film è stata ricostruire le atmosfere degli anni Ottanta e soprattutto il cinema Empire che, pur sullo sfondo, entra prepotentemente nella storia attraverso i dialoghi dei personaggi. «Quando ero ragazzino andavo in un cinema di fronte al lungomare che però oggi non esiste più» svela il regista. «Ne ho trovato uno che però era troppo grande rispetto ai miei ricordi e questo poneva problemi nel collocare i personaggi nello spazio durante la scrittura. Poi Mark Tildesley (scenografo tra gli altri di No Time to Die e 28 giorni dopo, ndr) ha trovato un eccezionale palazzo Art Déco sul lungomare di Margate, nel Kent, in Inghilterra. Era talmente maestoso e decadente che ho deciso di prenderlo e trasformarlo nel Cinema Empire e mi sono messo a riscrivere ampi stralci della sceneggiatura proprio muovendomi attraverso le sue sale. Solo il foyer abbiamo dovuto ricostruirlo a parte perché lo spazio non era sufficiente a combinarsi con tanta magniloquenza».

Alla fine il film è un delicato ritratto tra due persone sole e fragili, una nel pieno della giovinezza, una pronta ad affacciarsi sulla vecchiaia, che trovano l’uno nell’altro un senso di famiglia e protezione reciproca. Non a caso in due delle scene più drammatiche Stephen cerca di proteggere Hilary dai propri tormenti, mentre Hilary fa quello che può quando un gruppo di hooligans prende di mira il suo fidanzato. «Il film descrive in parallelo una battaglia contro la sofferenza interiore che per puro caso si incontra con la battaglia contro abusi che lasciano lividi reali. Fino al momento in cui i due combattenti dovranno unirsi per lottare insieme».

Naturalmente, come in tutti i casi in cui un autore si mette allo specchio e costruisce trasfigurazione del proprio passato non sempre felice (pensate a Steven Spielberg in The Fabelmans o ad Alejandro González Iñárritu col suo Bardo), c’è da chiedersi se l’operazione sia andata a buon fine: «Non so se girare questo film mi abbia cambiato» conclude Mendes «ma certo è stato più difficile scriverlo che girarlo. Sul set ho cercato di rimanere impassibile, ma mi sono sentito a volte come se qualcuno mi strappasse la pelle. È un’immagine cruda, ma i serpenti in fondo lo fanno per rinascere a nuova vita. E ora mi sento molto più leggero».

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