Lo scultore che ha lasciato «segni» inconfondibili in tutto il mondo racconta a Panorama della sua ricerca tra sfere, labirinti e videogiochi. Della Milano che ha amato e della curiosità che lo accende, «nonostante questa realtà ci disorienti tutti». E confessa una passione che si spinge oltre i confini terrestri…
«La Terra guardata dallo spazio, con gli oceani, le distese di sabbia, le file di montagne. Quanta invidia quando vedo Samantha Cristoforetti! Se la incontrassi, le chiederei subito cosa si prova a galleggiare nel vuoto…». A 96 anni Arnaldo Pomodoro ha l’entusiasmo ingenuo di un bambino quando parla degli astronauti. Lui, l’artista italiano contemporaneo forse più esposto in luoghi pubblici al mondo, con le inconfondibili sculture in metallo o in fibra di vetro dalle Hawaii a San Paolo, da Manhattan all’Australia. In luoghi-simbolo come davanti alla sede dell’Onu o nel cortile del Quirinale, dove, durante il recente giuramento del governo, si è visto inquadrare un suo Disco in forma di rosa del deserto. E così ci si continua a interrogare di fronte a queste forme arcane – sfere all’interno di sfere, lance di luce, «aste cielari», labirinti in bassorilievo – che trasmettono l’impressione di qualcosa di severo, di definitivo, ma non fanno paura: semmai esercitano l’attrazione di una preghiera pronunciata nel bronzo.
Pomodoro riceve Panorama nella sua Casa della scultura, a un passo dai Navigli, a Milano («Vengo qui a riordinare il mio archivio e ogni tanto lavoro anche a qualche piccolo pezzo con i miei assistenti. Per uno scultore è difficile fare tutto da solo…» dice). Vestito di blu, dritto sulla schiena, appena qualche indugio nei passi ma occhi mobilissimi. Indica una parete, dov’è appesa la sua opera «spaziale» dal titolo L’inizio del tempo. Su una lastra nera di metallo risalta una sfera scura, la Terra, che pare seguire una traccia dorata. È il cosmo che ritorna e affascina sempre. Anche l’occasione dell’incontro, il videogame interattivo per le scuole Missione Pietrarubbia ispirato all’opera dell’artista, è ambientato in una galassia remota con i ragazzi che si devono orientare grazie a mappe di grande formato.
Nei suoi labirinti costruiti con tagli e corrosioni, c’è chi legge una scrittura. Per lei che cosa sono, Maestro?
Il labirinto mi ha sempre attratto come luogo di passaggio, incontro, comunicazione. Una metafora della vita che è un viaggio oscuro tra slanci e impasse, arresti e riprese. Il labirinto non può che essere percorso, bisogna perdercisi dentro per poi ritrovarsi. E ancora riperdersi.
Il processo di una sua scultura è lungo. Termina con il bronzo, ma parte dall’argilla che lei modella…
Il contatto con la materia significa rapporto con il mondo e quindi la possibilità di una trasformazione. È parte integrante del mio lavoro. Scavo nell’argilla, con le mani e con vari attrezzi, la forma che voglio dare «in negativo»: quell’impronta si trasferisce prima al gesso, quindi allo stampo in gomma siliconica su cui viene colata la cera, per arrivare infine alla fusione del metallo. In ogni caso, è la stessa terra che dà vita alla scultura.
In tante sue opere c’è una superficie di metallo liscia, scintillante, dove si aprono fratture, ferite o, se si vuole, dei canyon… Ce la spiega?
A me la forma piena non interessa. È un’illusione, quella. Mi preme far capire che quel «pieno» racchiude un vuoto, un mistero. Ma mi faccia aggiungere una cosa sulle mie sculture: quando dicono che ho usato chissà quali prodotti per rendere così lucide le grandi sfere… Ci vuole «olio di gomito», ecco quello che ci vuole!
A parte le opere a grandi dimensioni, con i gioielli lei ha praticato una «scultura in miniatura», come diceva Gillo Dorfles. Perché questa passione?
Quando lavoravo ancora a Pesaro, come geometra al Genio civile, avevo scoperto come si potevano incidere e scavare gli ossi di seppia. Una vera «tessitura». Una base su cui plasmare questi gioielli. Mi è sempre piaciuto realizzarli, anche se riconosco che alcuni erano quasi «importabili». Ma Fernanda Pivano riusciva a indossarli comunque con grazia. Per Ornella Vanoni, per esempio, ho creato una sorta di «guanto-bracciale» che esibiva fieramente nei suoi concerti…
Lei, Maestro, quali maestri ha avuto?
Lucio Fontana. L’ho conosciuto qui a Milano, nel 1954. Per me è stato un’ispirazione e anche un padre. Qualunque cosa facesse, anche un buco in una tela, esprimeva un’arte liberatoria. Lo ammiro.
Perché le persone restano affascinate dalle sue sculture?
Forse perché cercano di trasmettere la carica di emozione dell’artista nei confronti della realtà e delle sue contraddizioni. Nelle sculture cerco di esprimere una forza d’astrazione che permette una pluralità di letture, di interpretazioni simboliche.
Ha ricordato la Milano degli anni Cinquanta. Frequentava quell’ambiente artistico?
Io sono nato a Orciano, nelle Marche. È un posto bellissimo, ma da lì dovevo scappare. Si devono abbandonare le cose conosciute, aprirci ad altro… E per me l’«altro» è stata Milano, il posto dove invece bisognava essere. In seguito sono andato in America, a New York, in California, certo. Però era da Milano che passava tutto. Poi sì, gli artisti si ritrovavano a Brera, in caffè come il Jamaica. Io non tanto, in verità. Ci vedevo soprattutto ubriaconi! (Ride). Personalmente, preferivo lavorare in studio. C’è stata anche un po’ di mitizzazione su quell’epoca…
Segue l’arte di oggi?
Ci vedo spesso spettacolarizzazione o operazioni di puro marketing. Però ci sono anche giovani artisti di talento che cercano nuovi linguaggi espressivi: vanno sostenuti. Per questo ho voluto una Fondazione con spazi per le esposizioni e un premio che valorizzi quelli che fanno scultura.
E passando dall’arte alla realtà in cui viviamo, questa che effetto le fa?
Sono affascinato ma altrettanto disorientato. Si sono annullate le distanze, la comunicazione è diventata immediata e globale, allo stesso tempo sono venuti meno i luoghi di incontro e di scambio, si sono confusi i diversi periodi della vita e della storia. Siamo fragili, mi sembra che soprattutto i giovani abbiano perso l’orizzonte. Credo che dovremmo ritrovare la consapevolezza del passato, della sua ricchezza, della sua complessità per costruirci un futuro. Anch’io mi sento confuso, anche se continuo a essere curioso. Dello spazio, per esempio… Perciò mi appassionano le imprese della Cristoforetti!
Che cos’è per lei la felicità?
Nella vita è impossibile separare la gioia e il dolore. Io ho dovuto affrontare difficoltà e dolori che mi hanno segnato e rafforzato il carattere, ma ho anche vissuto momenti di intensa gioia. La felicità consiste nel trovare un punto di equilibrio tra questi due opposti, forse.
C’è un difetto che si riconosce?
L’egocentrismo, tipico di chi fa il mio mestiere. Prima mi capitava di cambiare spesso d’umore. Alla mia età però sono più tranquillo, più paziente. Anche con gli imbecilli!
Il «dopo vita» la spaventa?
La morte mi ha sempre angosciato e spesso provo smarrimento, mi sento un sopravvissuto pensando a tutte le persone care che ho perduto, agli amici che non ci sono più. Però mi rassereno quando riesco a srotolare nella memoria le esperienze, belle e brutte, o le immagini delle mie opere all’aperto, nel verde, dove la gente vive e si muove, dove diventano parte del territorio. Un tutt’uno con il paesaggio.
Ha fiducia nel futuro?
Posso dire di non aver perduto passione. E ho il desiderio di sapere, di conoscere. Mi piace dialogare con i giovani perché, oltre la trasmissione di esperienze, credo sia importante creare un senso di comunità, un progetto collettivo, vitale. Questo ci può aiutare nel nostro disorientamento.
C’è un’opera a cui è più affezionato?
Sono tutti «figli» miei, come faccio a preferire questa o quella… Però ho un rimpianto: non aver visto realizzato il cimitero di Urbino, pur avendone vinto il concorso. Sarebbe bella un’opera che integra architettura, natura ed etica: una strada scavata dentro una collina, nel verde, con pareti alte in cui collocare le tombe. Per collegare idealmente i culti funerari antichi e l’uguaglianza di tutti di fronte alla morte della fede cristiana.
A che cosa serve l’arte, alla fine?
Picasso sosteneva che «è la menzogna che ci fa raggiungere la verità o, almeno, la verità che ci è dato comprendere». Uno dei suoi paradossi è che sfugge a ogni logica strumentale. Quello che direi io è che l’arte serve a tutto… e a niente.