Francesco Califano, in arte Franco
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Costume

Tutto il resto del califfo

Un libro racconta chi è stato veramente Franco Califano, scomparso 10 anni fa (quanti sanno che ha venduto oltre 20 milioni di dischi?). Un racconto rende merito a lui e al suo genio e prova a cancellare quella etichetta da playboy coatto che si è sempre portato addosso.

Raccoglieva frammenti di vita sulla strada e nelle notti romane e le trasformava in canzoni Franco Califano. A modo suo, senza appartenere a niente e a nessuno. Un battitore libero che la critica non ha mai amato e forse nemmeno capito, etichettando i suoi dischi (ne ha venduti 20 milioni) e le sue canzoni come l’espressione folkloristica di un «guitto di Trastevere».

Ma Califano era molto più dell’immagine del playboy coatto che gli è rimasta appiccicata addosso per tutta la vita. Una vita complicata, controversa, spesso solitaria, tra luci e ombre, 1.500 donne, cocaina, cadute rovinose e lampi di genio. Un’esistenza che adesso viene raccontata e svelata nei dettagli dal giornalista, nonché amico personale, Marino Collacciani, nel libro Francamente Franco (Castelvecchi).

Non una biografia in senso classico, ma un puzzle composto da centinaia di frammenti di vita reale. «A cominciare da una telefonata ricevuta da Franco alle tre di una notte d’estate. Un periodo durissimo, segnato dalla fine del mio matrimonio. Voleva capire che cosa era successo veramente. Mi fece parlare senza incalzarmi, ma con il tono fermo di chi vuole che gli racconti la verità, tutta la verità. Un “interrogatorio” senza la luce puntata in faccia… Lo avevo conosciuto vent’anni prima quando il direttore de Il Tempo, Gianni Letta, mi aveva chiesto di seguire un suo concerto a Ladispoli: “Marino, fammi un ritratto dell’uomo”».

Già, l’uomo… Di ordinario nella vita di Califano non c’è stato nulla, nemmeno il primo vagito emesso in volo su un aereo in viaggio verso Johannesburg, come racconta Collacciani. Figlio di Jolanda e Salvatore, militare nell’esercito, Franco debutta come attore di fotoromanzi, recita in una manciata di film e scrive poesie. Ma c’è lo spartito nel suo destino: La musica è finita, interpretata da Ornella Vanoni e scritta da Califano con Nicola Salerno e Umberto Bindi, valica addirittura i confini nazionali e diventa un singolo di Robert Plant, nientedimeno che il cantante dei Led Zeppelin, che la incide ribattezzandola Our Song.

«Franco sapeva comunicare con la gente delle borgate» prosegue Collacciani. «Viene spontaneo il paragone con l’approccio di Pier Paolo Pasolini. Un uomo di sinistra che per quest’anima popolare è stato attaccato dalla cultura di sinistra. Franco, che invece era di destra, un anticomunista, è stato attaccato dalla sinistra, ma mai difeso dalla destra. Detto questo, era un uomo di eccezionale generosità. Pagava sempre il conto. Al ristorante, al bar, come nella vita. Nel 1970 è indagato per possesso di stupefacenti in un’inchiesta che coinvolge anche Lelio Luttazzi e Walter Chiari. Si costituisce, finisce a Regina Coeli e dopo poco ottiene gli arresti domiciliari. Solo che la sua casa in quel periodo era una roulotte…».

Cade e risorge Califano: nel 1973 insieme a Dario Baldan Bembo scrive per Mia Martini l’indimenticabile Minuetto, che diventa un classico della musica italiana. Tre anni più tardi arriva la sua canzone-manifesto, Tutto il resto è noia: sette settimane al primo posto in classifica e un milione di copie vendute. «Non mi considero un pentito della droga, perché amo il vissuto, ma non amo il vizio e sto cercando di convincere i viziosi a guarire dalla droga» è una delle dichiarazioni di Califano citata dal libro e riferito al suo incontro con Don Pierino Gelmini e la Comunità Incontro. Niente di ordinario, dicevamo, nella sua esistenza, men che meno il finale quando per l’ultima volta, nel marzo del 2013, sale sul palco del teatro Sistina di Roma, sfiancato da un tumore. «Era ridotto a uno straccio: piangeva perché era commosso dall’affetto della gente, nei camerini c’era la ressa per dargli una carezza. Purtroppo le ombre che hanno popolato la sua vita hanno condizionato il giudizio sull’arte» commenta Collacciani.

«Era riuscito a esaudire il suo ultimo desiderio, quello di tornare in teatro dopo che negli ultimi anni aveva cantato principalmente nei ristoranti. Lo faceva con grande dignità, ma continuava a ripetere: “Basta, mi sono rotto le palle di suonare in questi posti, io nei ristoranti ci vado per mangiare”. Dodici giorni dopo lo spettacolo al Sistina se ne è andato». Con un ultimo guizzo, l’epitaffio voluto sulla tomba: «Non escludo il ritorno».

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Gianni Poglio