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Berto, il paladino degli oppressi che unì l’Italia

Berto, il paladino degli oppressi che unì l’Italia

A 106 anni dalla nascita dello scrittore di Mogliano Veneto, di cui l’editore Neri Pozza sta ripubblicando le opere, panorama.it ripercorre la parabola umana e culturale di una delle personalità più affascinanti della letteratura italiana del secondo Novecento. Da Il cielo è rosso a Il brigante, da Il male oscuro a La Fantarca, da Anonimo veneziano alle riflessioni sulla Calabria, Giuseppe Berto (1914-1978) ha impersonato la figura dell’intellettuale che fa i conti con la sua stessa esistenza dolorosa, sin dentro le pieghe più intime della propria anima, agitata da tristezza (in abbondanza) e gioia (a macchia di leopardo). Dopo essere approdato sul promontorio calabrese di Capo Vaticano, decise di stabilirvi il suo buen retiro. Per l’eternità.

  • La figlia Antonia Berto: «Mio padre ha sempre lottato per difendere il Sud e la Calabria»
  • Il critico letterario Giuseppe Lupo: «Negli anni della polarizzazione ideologica scelse di restare battitore libero»



Agli inizi degli anni Cinquanta, all’apice di quella fase comunemente definita neorealistica della sua produzione, Berto iniziava a interessarsi di una terra lontana per collocazione geografica e sentire culturale. La Calabria era regione marginale per la maggior parte dei connazionali dell’epoca e, come se non bastasse, ambientò il suo romanzo neorealista per eccellenza nel cuore stesso degli sperduti boschi della Sila, l’antica Hyle dei greci. «L’ambiente e l’epoca hanno, naturalmente, una grande importanza nella struttura del romanzo: la regione in cui si svolge la vicenda, in primo luogo, è una terra dove un secolare immobilismo sociale ha esasperato le condizioni di vita degli abitanti, scavando un abisso tra la massa dei poveri e dei diseredati, vittime dell’ignoranza e predestinati allo sfruttamento, e la classe ristretta dei proprietari, i padroni dei latifondi che vivono lontano, chiusi nella loro superbia di gente ricca». Lo interpretò cosi, quel romanzo, Federico Roncoroni scrittore e saggista comasco, studioso dell’Ottocento e del Novecento, curatore di diverse edizioni di classici italiani e di una celeberrima edizione della grammatica della lingua italiana, inquadrando la struttura narrativa de Il brigante in un’edizione del 1989. Il protagonista diventerà il paladino dei deboli e degli oppressi, di quella popolazione contadina calabrese che Berto, in fondo, contribuirà a redimere e a porre all’attenzione del dibattito nazionale: Time lo definì «uno dei più belli e tragici romanzi che siano comparsi da anni» e l’abile pellicola di Renato Castellani, nel 1961, lo traspose sul grande schermo, amplificando il suo messaggio catartico. E lo stesso altopiano silano conobbe la sua celebrità, evidenziata da Guido Piovene, nel 1963, all’esito di una delle sue peregrinazioni italiche, per il quale sembrava «essere caduti in un angolo della Scandinavia, con i pini silani più alti e snelli degli abeti nordici»-

E così, dopo aver girato «palmo a palmo tutte le coste dell’Italia Meridionale», anche per trovare sollievo da uno stato psico-fisico sempre più instabile, nel 1957 Berto incontrò finalmente, proprio in Calabria, il suo intimo genius loci, «violento e armonioso e non ancora toccato dagli uomini»: si innamorò perdutamente di due ettari di terreno incolto, a strapiombo sul mare, acquistati il 2 gennaio 1957 per 100.000 lire, grazie a un prestito alla Cassa degli scrittori. A vendergli il podere un contadino del luogo, Nicola La Sorba, la cui unica preoccupazione era quella di costituire la dote della figlia in vista delle imminenti nozze. «Appena la vidi seppi che quella terra, dalla quale si scorgevano magiche isole, era la mia seconda terra, e qui son venuto a vivere» scrisse ne Il male oscuro. «Sto su un promontorio alto sul mare, è un panorama stupendo. E quando il giorno, dalla punta del mio promontorio, guardo gli scogli e le spiaggette cento metri sotto, e il mare limpidissimo si fa subito blu profondo, so di trovarmi in uno dei luoghi più belli della terra». Sarebbe rinato, a partire dalla firma del rogito, il 19 gennaio del 1957: ad accompagnarlo su quel «Capo de Roca» calabrese, il regista torinese Vittorio Sabel, contagiato a sua volta dal fascino di quei luoghi. Le cronache locali ricordano un veneto e un piemontese intenti ad animare quello sperduto costone, dormendo su un tavolaccio di legno e preparandosi a turno i pasti. Sabel, che stava conducendo importanti inchieste nel Meridione d’Italia, sarebbe morto suicida a Roma il 7 luglio del 1989 e venne tumulato nel piccolo cimitero di San Nicolò di Ricadi, su quello stesso promontorio, lasciando in eredità, alla comunità locale, tutti i suoi beni per sostenere progetti di aiuto all’infanzia.

«L’isola degli aranci sta dall’altra parte, celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c’è un piccolo tratto di mare, proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, padre non ho coraggio, (…) e del resto non tutti coloro che volevano la terra promessa poterono giungervi, non tutti furono degni della sua stabile perfezione, e così, verso sera, cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia: di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi (…). Ecco, qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre (…) e penso che in conclusione potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte». Nelle pagine de Il male oscuro c’è tutto il senso di attesa ed incanto per la nuova vita appena iniziata lungo la Costa degli Dei, una cinquantina di chilometri tra Pizzo Calabro a Nicotera, con il mar Tirreno a fare da palcoscenico alle Isole Eolie ed all’Etna innevato. «Mio padre ha sempre amato il Sud e quando nel 1955 scoprì Capo Vaticano, dopo essersi affacciato dal promontorio, scrisse di trovarsi “in uno dei luoghi più belli della terra”» racconta la figlia Antonia, che dopo aver passato più della metà della sua vita negli Stati Uniti, è tornata in Italia e si lascia andare ai ricordi, proprio da Capo Vaticano, in quest’inizio del nuovo anno.


Berto, il paladino degli oppressi che unì l’Italia
Giuseppe Berto con la moglie Manuela Perroni e la figlioletta Antonia (Archivio famiglia Berto).
Giuseppe Berto con la moglie Manuela Perroni e la figlioletta Antonia (Archivio famiglia Berto).


Vivevate in simbiosi con la natura.

«A quei tempi non c’era né luce né acqua: i primi anni li passavamo in tenda, il paesaggio era incontaminato, c’erano solo i fichi d’india, le ginestre, la vigna e gli alberi di fico. Il mare era cristallino, le spiagge di sabbia bianca erano circondate dalle affascinanti scogliere di granito».

Un impegno morale, il suo.

«Papà vedeva la bellezza della Calabria sublimarsi nell’agricoltura e nel turismo: nel 1968, proprio di fronte a Stromboli dove il Capo termina prima di lasciare spazio al mare e all’orizzonte, costruì il “Capo Club di Capo Vaticano”, la prima discoteca della zona. Proteggendo la macchia mediterranea».

Poi il boom edilizio.

«Agli inizi degli anni Settanta iniziò la speculazione selvaggia della Calabria e mio padre lottò per difenderla, promuovendo l’attuazione di un piano regolatore: nel 1977 organizzò proprio sul “Capo” una mostra di arte contadina per denunciarne la progressiva scomparsa e scrisse pure un libretto, “Intorno alla Calabria” che voleva fosse “un atto di accusa per i calabresi, e un atto di amore per la Calabria”».


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Giuseppe Berto con la figlia a Capo Vaticano (
Giuseppe Berto con la figlia a Capo Vaticano (Archivio famiglia Berto).


Ritorniamo al Berto tra regime e guerra.

«Papà si convinse a partire volontario in Abissinia nel ’35 e poi ancora nel ’42 per Misurata, più per sfuggire alla famiglia ed alla grigia e asfissiante monotonia della provincia, che per reali convinzioni ideologiche».

E gli diedero del fascista…

«Per questa sua scelta, e per le sue posizioni libere e insofferenti a qualsiasi schema precostituito venne spesso tacciato di essere uomo di destra. Figuriamoci! Mio padre descrisse il fascismo come un insieme di retorica, faziosità, illiberalità e violenza, come una lotta tra due princìpi di libertà e giustizia. Nulla di più lontano da lui e dalle sue convinzioni, l’ideologia fascista».

Ancora oggi?

«A chi ancora considera mio padre un uomo di destra, consiglio di leggere o rileggere Guerra in camicia nera da poco nuovamente in libreria con l’eccellente introduzione di Domenico Scarpa».

Nel 1943 suo padre finì prigioniero in Texas…

«Era fieramente amico di Gaetano Tumiati, Gaetano Troisi ed Ervardo Fioravanti, artisti e intellettuali che avevano fondato la rivista Argomenti e che gli chiesero di collaborare, visti i suoi studi letterari. Nacquero, in carcere, romanzi come Le Opere di Dio e Il cielo è rosso».

Anelava la libertà.

«È sempre stato un uomo libero, ne ho ammirato l’onestà e la responsabilità che si voleva addossare per esprimere le proprie idee»>.

Responsabilità pagata a caro prezzo.

«Divenne oggetto di un ingiustificato ostracismo da parte dell’establishment culturale che mai gli perdonò le sue scelte giovanili, pur avendole invece giustificate in tutti coloro che, per tornaconto personale, avevano rinnegato il proprio passato rifiutandosi di fare i conti con il fascismo e con la storia della nostra nazione».

Difficile vivere così…

«Ha sicuramente dovuto lavorare e andare avanti con più fatica e con maggior forza interiore di altri, nutrendosi della sua ironia e del suo grande sense of humor per combattere la retorica e soprattutto la nevrosi che lo attanagliava».

Storico lo scontro con Moravia.

«Durante il Premio Formentor del 1962, papà e Sergio Saviane sostenevano La vita agra di Luciano Bianciardi e denunciarono le manovre di Alberto Moravia per favorire L’età del malessere della giovane e sconosciuta Dacia Maraini, sua nuova compagna di vita».

Anche Hemingway lo apprezzava.

«Nel marzo del 1954, il grande scrittore statunitense, intervistato da Eugenio Montale, sostenne che Berto, con Pavese e Vittorini, fosse uno dei grandi scrittori italiani. Ma neanche questo magico endorsement gli rese la vita più facile».

Non era gradito alla cultura egemone, evidentemente.

«Sebbene condannato dall’establishment di sinistra a non avere voce in capitolo, mio padre otteneva sempre un enorme successo di pubblico, perché i suoi lettori lo amavano e le sue opere si aggiudicavano numerosi premi letterari»>.

Uno scrittore pop.

«Parlava e scriveva di temi che, nella seconda parte del ‘900, prendevano piede mettendo al centro l’individuo e la sua personalità».

Finalmente il riscatto.

«Ci ha pensato Cesare De Michelis, scomparso nel 2018, fondatore della Marsilio ed emerito di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova. A suo dire papà rimaneva uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento se non addirittura il più grande».

E la ristampa delle sue opere.

«L’editore Neri Pozza, grazie al direttore editoriale Giuseppe Russo, ha di recente intrapreso un approfondito lavoro di rilettura critica dell’opera: memorabile lo scritto di Emanuele Trevi in chiusura della riedizione de Il Male Oscuro del 2016».


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Il male oscuro: una bella rivincita.

«Vide la luce nel 1964, probabilmente l’anno clou della sua carriera letteraria: rifiutato in precedenza da più di un editore, si aggiudicò in una sola settimana i premi Viareggio e Campiello».

Un caso letterario, indubbiamente.

«Rilesse la sua vita, attraverso un percorso psicoanalitico, alla ricerca delle radici della propria sofferenza: e rivoluzionò le strutture narrative del romanzo in un contesto classico e contemporaneo al contempo».

In che modo?

«Utilizzò il flusso di coscienza, senza interposizioni narrative, che toglie il fiato al lettore e lo inchioda alle pagine come se fosse l’autobiografia di tutti. Maestri in ciò erano Virginia Woolf, Thomas Eliot, Jack Kerouac, William Faulkner, Luigi Pirandello, Guido Piovene e Italo Svevo>>.

Chi è Antonia Berto?

«Sono la combattiva figlia dell’amore di Bepi e mia madre Manuela Perroni, scomparsa proprio quest’anno, il 20 febbraio. Si erano conosciuti a Roma, in piazza del Popolo, nei primi anni Cinquanta e si sposarono nel ’54. Mamma era 18 anni più giovane di papà».

Un bel caratterino, da giovane.

«Ho vissuto un periodo da estremista, ho fatto parte della sinistra extraparlamentare e mi vedevo, se mi si fosse presentata l’occasione, in Cina per fare la rivoluzione culturale: bisogna sempre contestualizzare le scelte».





«Negli anni della polarizzazione ideologica scelse di restare battitore libero»

Berto, il paladino degli oppressi che unì l’Italia
Giuseppe Lupo, associato di Letteratura italiana alla Cattolica di Milano (GettyImages).

«Anomalo il destino a cui è andata incontro l’opera di Giuseppe Berto: può apparire un paradosso, ma è ciò che si è verificato» osserva Giuseppe Lupo, associato di Letteratura italiana alla Cattolica di Milano, vincitore nel 2001 del Premio Berto con il suo romanzo d’esordio L’americano di Celenne, oggi membro della stessa giuria e trionfatore, nel 2011, del Premio Campiello – Selezione giuria dei letterati con L’ultima sposa di Palmira».

Destino amaro, il suo…

«Comune sia a quel sentimento di sofferenza che ritroviamo nelle sue pagine – perfino in quelle apertamente ironiche – sia a quella cortina di isolamento che lo ha praticamente recluso per molti anni, anche dopo la morte, nonostante quella doppietta di vittorie, ancor oggi stupefacente, che centrò nel 1964, ai premi Campiello e Viareggio, con Il male oscuro, il suo capolavoro».

Le ragioni di questa anomalia?

«Nella tipicità degli scrittori che hanno intrapreso la strada dell’originalità o della non omologazione, ovvero nell’abitare la dimensione dei profeti inascoltati. Gli capitò sin da subito, con Il cielo è rosso».

Contro le sirene della politica?

<<Quando l’engagement era di moda, Berto non si munì di tessere di partito, non militò in movimenti culturali, rimanendo estraneo alle rotte attraverso cui transitavano le fortune letterarie di molti suoi coetanei».

Anche tra gli anni Cinquanta e Settanta, con la forte polarizzazione ideologica?

<<All’epoca, per sopravvivere, bisognava accreditarsi presso una fazione politica, magari indovinando la più potente e quindi la più conveniente. Scelse, invece, di rimanere fuori da questa logica, divenendo un battitore libero>>.

Irregolare e ignorato.

«Nonostante gli sperimentalismi adottati ne Il male oscuro. Guardato con sospetto tanto dai marxisti (che gli non hanno mai perdonato il suo diario Guerra in camicia nera) quanto dai cattolici, per i quali era e resta uno scrittore fortemente votato al dissenso».

Coerente sino alla fine?

«Berto non avrebbe rinunciato al suo modus vivendi nemmeno alla fine, nel suo testamento: La gloria (1978), rappresenta un vero e proprio monumento al vangelo degli sconfitti, risposta controversa al dramma sacro della colpa e della redenzione».

Pesarono le sue radici?

«È molto probabile che in un libro così profondo e disperato, che rappresenta il culmine di una lunga indagine su Dio, avessero inciso le origini di chi aveva respirato l’aria cattolica e contadina veneta».

Riallineamento finale?

«Intanto Berto chiude i conti con i fantasmi della sua vita: la minaccia del padre (da cui forse allontanarsi e guarire per vie psicanalitiche), il “male di vivere”, l’alienazione».

Giuda che racconta al mondo il gesto di tradire Cristo…

«Giuda è l’archetipo di un processo identitario, esperienza di faticosa solitudine a cui sono chiamati tutti gli uomini sin dall’alba dei tempi, anche i non credenti, posti di fronte al mistero del divino e del soprannaturale».

Berto fa luce sugli ultimi, allora.

«Aveva ritrovato la gioia di scrivere in un campo di deportazione militare nel deserto del Texas, ed era più che convinto che anche il più debole dei prigionieri, anche il più indifendibile dei peccatori avesse il suo diritto alla redenzione».

E Berto si è redento?

«Ha preferito farsi da parte, eleggere a dimora uno sperduto angolo di Calabria, a sua volta sperduta regione dell’Italia post-bellica e da quel remoto avamposto di paradiso si è messo a contemplare la civiltà lasciata alle spalle. E, insieme con essa, la sua catastrofe annunciata».

Epilogo con provocazione

Berto, il paladino degli oppressi che unì l’Italia
Capo Vaticano (iStock).

Quel «rifugio di pietre», come Berto aveva definito il suo umile ritiro in terra calabra, ospitando spesso amici e scrittori, oggi si è trasformato nel festival «Estate a Casa Berto», che continua ad attrarre intellettuali da ogni dove. Ideato dalla figlia Antonia, dalla scrittrice Jo Lattari e dall’editor Marco Mottolese, coinvolge giornalisti, scrittori e artisti in conversazioni su temi culturali, serate di spettacolo e proiezioni. «L’idea» racconta la figlia Antonia «è nata nel periodo in cui l’editore Neri Pozza stava cominciando a ristampare le opere di papà che tanto aveva amato quel promontorio, individuando nell’agricoltura e nel turismo le due ricchezze della Calabria, e combattendo, nel 1977, contro la cementificazione di queste coste». Evidentemente le donchisciottesche battaglie dello scrittore sono servite, all’indomani della sua scomparsa il 1 novembre del 1987, a far scoprire il senso più intimo e segreto di una regione, ancor oggi, un mistero irrisolto. Per i calabresi, soprattutto.

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