La partitura di Giuseppe Verdi nacque a Parigi nel 1867, in cinque atti e grandeur di ogni tipo. Tradotta in italiano cominciò a girare per vari teatri a partire dalla Scala dove fu proposta in quattro atti. Storia di una rappresentazione che ha segnato le sorti di cantanti, teatri, registi.
Cominciamo con il dire che Don Carlo, uno dei massimi capolavori del teatro musicale, è un’opera lunga. Anche nella versione più compatta in quattro atti, ripensata da Verdi per la Scala nel 1884, sono comunque tre ore di musica. È quindi forse il titolo più impegnativo che Riccardo Chailly abbia scelto come inaugurazione di stagione da quando è alla Scala, rispetto ai due Puccini (Madama Butterfly e Tosca), ai Verdi giovanili (Giovanna d’Arco, Attila, Macbeth), a Giordano (Andrea Chénier) e al Boris Godunov dell’anno scorso (dato nella prima versione, senza l’atto polacco). Insomma, è senz’altro un’opera «da 7 dicembre», per dirla con chi ancora non riesce a superare il cliché che il titolo inaugurale della Scala debba essere per forza grandioso e popolare – cosa peraltro ampiamente smentita dallo stesso Chailly in questi anni.
E pensare che quando l’opera nacque, nel 1867 a Parigi, si chiamava Don Carlos ed era ancora più lunga. Verdi l’aveva composta con tutto l’armamentario del grand opéra francese: cinque atti, balletti, spettacolari scene corali e grandeur di ogni tipo, solo che quando si cominciò a provare, si capì che durava troppo persino per l’Opéra. Esattamente un quarto d’ora più del dovuto, e a Parigi uno spettacolo non poteva andare oltre la mezzanotte, altrimenti gli spettatori perdevano l’ultimo treno suburbano. Tradotta in italiano, l’opera cominciò a girare ovunque, Scala compresa. Ma il «cantiere» di Don Carlo non si fermò per altri 20 anni, e forse non si è mai veramente chiuso. La versione ’84 andata in scena alla Scala, con un atto in meno, secondo Verdi aveva «più concisione e più nerbo». Poi ne arriverà un’altra, di nuovo in cinque atti, nata per Modena nel 1886. Ma nessuna di queste versioni sostituisce la precedente, motivo per cui le domande «in quattro o in cinque atti?», «in italiano o in francese?», «con o senza ballabili?» iniziano presto a togliere il sonno a sovrintendenti, direttori artistici e musicali quando decidono di mettere su un nuovo Don Carlo. Perché una risposta giusta, a ben vedere, non c’è.
Si può dire però che alla Scala ci sia una versione più significativa delle altre: quella in quattro atti appunto, non fosse altro perché è a Milano che ha avuto la sua prima assoluta. Da allora l’opera ha avuto oltre 200 recite, con ben 22 allestimenti e addirittura nove aperture di stagione, e siamo alla quinta da quando la «Prima» si tiene il 7 dicembre. Non sempre però è andata benissimo. Per esempio nel 1896 furono cancellate tutte le repliche dopo la prima perché Vittorio Maria Vanzo, wagneriano di ferro, fu accusato di aver diretto male di proposito, per umiliare Verdi. Si era ancora in piena contesa Verdi versus Wagner. Ci voleva Arturo Toscanini per conciliare gli animi dei due schieramenti, stabilendo una volta per tutte che i due sono di pari grandezza. In quegli anni Don Carlo compare, certo, ma non si spesso: circa una volta ogni 10 anni, poi più niente fino al Dopoguerra.
Gli anni Cinquanta sono ricordati come un’età dell’oro della Scala, che sfoderava ogni sera locandine che ancora oggi fanno venire le lacrime agli occhi ai loggionisti superstiti. Don Carlo viene fatto più spesso, anche con Maria Callas nella parte di Elisabetta, e ogni volta a fine recita è una «pioggia rosea». Ma è stato senza dubbio Claudio Abbado il direttore a interessarsi di più al mastodontico «operone» verdiano, con cui infatti ha aperto la stagione ben due volte. La prima nel 1968: quattro atti, spettacolo di Jean-Pierre Ponnelle e cast stellare (i sei protagonisti erano Bruno Prevedi, Rita Orlandi Malaspina, Nicolai Ghiaurov, Fiorenza Cossotto, Piero Cappuccilli, Martti Talvela), ma la serata è passata alle cronache più per le proteste degli studenti che per ragioni musicali. Le uova di Mario Capanna fecero molte vittime tra le pellicce di chi entrava in Teatro, nonostante il tentativo del Sovrintendente Antonio Ghiringhelli di abbassare il tono della serata di gala, evitando addobbi floreali e contenendo il tradizionale ricevimento dopo-Scala. Per questo il Don Carlo di Abbado è sicuramente quello del 1977, inaugurazione del bicentenario del teatro (fondato nel 1778). Stavolta cinque atti, persino con reintegro di alcuni brani sacrificati da Verdi alla prima parigina. In locandina, i nomi di José Carreras, Mirella Freni, Nicolai Ghiaurov, Elena Obraztsova, Piero Cappuccilli, Evgenij Nesterenko.
Lo spettacolo di Luca Ronconi e dello scenografo Luciano Damiani prevede una scena divisa in due: l’azione si svolge davanti, con pochi elementi per evocare la cappella sepolcrale di Carlo V, mentre sullo sfondo sfila ininterrottamente un’inquietante processione, che Alberto Arbasino definisce malignamente un «carnevale di Viareggio di madornali carri allegorici con emblemi di potere catto-spagnolesco». Anche l’epoca Muti ha avuto il suo Don Carlo, con ritorno ai quattro atti, il caos bombastico di Franco Zeffirelli e un Luciano Pavarotti, come scrissero alcuni, «terrorizzato», che dopo questa prova non tornerà più alla Scala. Nel 2008 tocca a Daniele Gatti: di nuovo tribolazioni, con protagonista sostituito tra anteprima e Prima (fuori Giuseppe Filianoti, dentro Stuart Neill), e spettacolo concettuale di Stéphane Braunschweig che non piace. Ma ancora meno piace lo spettacolo in cinque atti di Peter Stein, importato da Salisburgo dal Sovrintendente Alexander Pereira. Ma piace la direzione di Myung-Whun Chung, come il tenore Francesco Meli che, sempre nella parte dell’Infante di Spagna, giunge oggi al suo quinto 7 dicembre.