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I russi costruttori della terza Roma

I russi costruttori della terza Roma

Filosofi e saggisti che riaffermano l’autonomia della civiltà russa e ne esaltano la tradizione cuturale in opposizione ai valori contemporanei dell’Occidente. Il loro obiettivo: rifondare un nuovo ordine morale. Un’ideologia diventata importante nelle mosse politiche del Cremlino.


Chissà, forse dipende dal fatto che ci affascina, a noi europei, l’idea che dietro le mosse dell’Orso russo si nasconda sempre un Rasputin con barba fluente e dall’odore sulfureo. Magari un mago, un santone esotico che appaghi la nostra brama orientalista. E allora, non da oggi, ci affanniamo ad attribuire a questo o quel pensatore un’influenza sulle decisioni del Cremlino. Quando la Russia torna sotto i riflettori, i più raffinati analisti si divertono a scavare fra apostrofi e nomi slavi, in cerca del prezioso testo che spieghi perché Vladimir Putin fa quello che fa, in nome di quale visione, di quale ideologia. A ben vedere, tuttavia, è un vano affannarsi.

Come spiega Luca Gori, ex diplomatico e autore di un bel saggio intitolato La Russia eterna (Luiss University Press), semplicemente di ideologi non ce ne sono. C’è stata, questo sì, un’evoluzione nelle posizioni di Vladimir Putin nel corso del tempo, e in particolare negli ultimi anni sono emersi – nei discorsi e negli atteggiamenti – temi e toni che prima non comparivano. Ma non c’è stata una vera svolta conservatrice. «Non esiste cioè un movimento del pensiero, secco e improvviso, per cui il Cremlino si è allontanato da un atteggiamento pragmatico per abbracciarne uno ideologico. Né esiste una teorizzazione compiuta di una nuova dottrina di Stato, in aderenza alle idee partorite nei circoli conservatori fioriti in Russia dopo il 1991. La “svolta conservatrice” di Putin è una lunga curvatura del disegno politico della Russia post sovietica».

Niente Rasputin, dunque. Semmai, un grande mare di idee a cui il presidente russo ha potuto attingere quando ne ha avuto necessità. Sbagliato anche parlare di opportunismo. Putin ha seguito le proprie inclinazioni, il proprio carattere. È sempre stato pragmatico, ma pure conservatore. Prima di tutto, anche in virtù della militanza nel Kgb, è stato un patriota, un amante dell’ordine che si contrappone al caos. I mutamenti dello scenario internazionale hanno fatto il resto, spingendo quasi fatalmente il Cremlino lungo un sentiero già tracciato, che aspettava solo, forse, di essere percorso fino in fondo.

Con quella che tanti osservatori hanno definito svolta conservatrice, scrive ancora Gori, «il Cremlino mirava piuttosto a “ideologizzare” la civiltà russa. A valorizzare il mito della patria. A costruire un’identità nazionale, promuovendo l’idea di una Russia eterna e istintiva, al di là della forma-Stato». L’idea della Russia eterna è antica, e molto radicata. Putin è sempre stato un uomo d’ordine, e nella filosofia del suo Paese – che è prima di tutto pensiero sulla Russia e della Russia – ha trovato un terreno fertile. I pensatori russi, infatti, hanno spesso percepito la loro patria come un «potere che frena», come il Kathécon capace di porre un limite al caos.

Se gli Stati Uniti hanno fin dalla nascita una carica rivoluzionaria, una tendenza inarrestabile a distruggere per poi ricreare un nuovo assetto (tendenza a cui non sfugge Joe Biden con il suo programma Build Back Better), la Russia è al contrario il grande difensore dell’ordine e della tradizione. O, per lo meno, tanti intellettuali l’hanno nel tempo percepita così: la Terza Roma destinata a illuminare il mondo e fermare le forze tumultuose dell’oscurità. Quelle che il patriarca Kyrill di Mosca ha voluto stigmatizzare in un discorso molto travisato e ancora più criticato dai media italiani.

Così intende la Russia Aleksandr Dugin, un pensatore oggi conosciuto anche in Italia. Le sue opere sono state tradotte da Aga edizioni di Maurizio Murelli, che di recente ha dato alle stampe I templari del proletariato. Un testo di fine anni Novanta, che lo stesso autore giudica in parte superato. Ma che fissa alcuni punti nodali del suo pensiero. Temi presenti in tutta la sua opera, che culmina in saggi come La quarta teoria politica e Etnosociologia. In particolare, ciò su cui insiste è «la totale negazione del liberalismo in quanto ideologia, politica, economica, cultura e epistème».

Da un lato, dunque, l’avanzare delle forze del caos: terragne, contrassegnate da un femminile negativo («il logos di Cibele»), oscure e tumultuose. Dall’altro la potenza solare di cui la Russia può farsi guida, faro della Tradizione nelle tenebre abitate dagli spiriti animali del neoliberismo. Dugin pone su un piano metafisico l’azione politica della Russia. Ma potremmo anche dirla al contrario: la politica sta spingendo la Russia a una lotta metafisica. E gli Stati Uniti stanno spingendo Putin verso posizioni euroasiatiste.

Che cos’è l’euroasiatismo? Nelle parole di Dugin, «una corrente ideologica e politico-sociale sorta nel contesto della prima ondata di emigrazione russa, unita dalla concezione della cultura russa come fenomeno non europeo che – fra le varie culture del mondo – presenta una originale combinazione di tratti occidentali e orientali; pertanto essa appartiene contemporaneamente all’Occidente e all’Oriente, e al tempo stesso non si riduce né all’uno né all’altro».

Il fondatore riconosciuto di questa corrente è Nikolaj S. Trubeckoj, di cui l’editore Aspis ha pubblicato L’Europa e l’umanità, un testo capitale. Altrettanto imprescindibili gli scritti di Kostantin Leont’ev (in Italia le Edizioni all’insegna del Veltro hanno pubblicato Bizantinismo e mondo slavo), sorprendente figura di pensatore e mistico al limite dell’ascetismo, capace d’influenzare generazioni di conservatori russi. Nei fatti, la contrapposizione sempre più frontale di Usa e Russia spinge quest’ultima verso Oriente, cioè la Cina, ma anche il Pakistan, l’India, l’Iran: ecco che in qualche modo il realismo collabora alla causa euroasiatica.

E c’è dell’altro. Nel 2014 – come racconta Gori – ai funzionari statali e ai dirigenti del partito Russia Unita furono donati i libri di tre autori: Nikolaj Berdjaev, Vladimir Solov’ev e Ivan Il’in. Molto noti i primi due: profondamente religiosi, fieri avversari del comunismo. Ma allo stesso tempo, come il premio Nobel Aleksandr Solzhenicyn, attenti critici del sistema occidentale, ateo e materialista (Berdjaev ne individua i difetti ne Il nuovo medioevo, pubblicato da Fazi).

Più enigmatico Il’In. Nazionalista d’acciaio, apologeta della violenza politica, è stato definito dallo saggista liberal Timothy D. Snyder «filosofo del neozarismo di Putin» e persino «fascista russo» (ne parla in questi termini nel libro intitolato appunto Ivan Il’In, edito da Italia Storica). In effetti, Il’In ammirava Benito Mussolini, ma anche qui è incauto soffermarsi sulla consueta divisione nostrana tra rossi e neri.

Il filo che unisce tutti questi pensatori, che giunge da Trubeckoj a Dugin, è percorso da un concetto chiave: il compito storico della Russia, la responsabilità che le deriva dal possedere «l’occhio della rivelazione» (così Il’In nel saggio Sulla Russia, di prossima uscita per Aspis a cura di Olga Strada). La Grande Russia deve salvare il mondo, conservando l’ordine contro il caos. E se questa battaglia epocale s’interseca, talvolta, con i progetti politici di Putin, tanto meglio.

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