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«Come abbiamo piantato il tricolore al Polo Nord»

«Come abbiamo piantato il tricolore al Polo Nord»

Un protagonista dell’impresa, Rinaldo Carrel, rivive con Panorama la straordinaria prova che portò la spedizione italiana fino al 90° grado di latitudine settentrionale. E ripercorre altre avventure estreme a cui ha partecipato, come la conquista dell’Everest.


«In base al calcolo ci siamo». Una voce gracchia dentro la radio, la comunicazione che arriva da un aereo fa fremere uomini e cani in cammino, come uno sparo in un accampamento addormentato all’alba. Poi il bimotore si esibisce in una picchiata sopra le teste di quella pattuglia congelata: è il segnale convenuto. Sono le 9 e 55 del 19 maggio 1971, per la prima volta una spedizione italiana raggiunge il Polo Nord con terra e acqua sotto i piedi (Umberto Nobile l’aveva fatto con il dirigibile). È quella di Guido Monzino, esploratore visionario figlio del fondatore della Standa, affascinato più dai grandi viaggi che dalla grande distribuzione. E protagonista nella corsa alla conquista del «non luogo» più affascinante del pianeta: il punto al 90° grado di latitudine nord. Una bandiera italiana prima dell’Infinito di Giacomo Leopardi vestito di bianco.

«Allora Mirko Minuzzo e io prendiamo una slitta e percorriamo un raggio di cinque chilometri, poi una circonferenza per racchiudere il punto indicato dalla stella polare. L’abbiamo catturato. Bisogna farlo perché, con il pack in movimento, dopo venti minuti ci troveremo altrove. Piantiamo nel ghiaccio il tricolore, accendiamo fiaccole di segnalazione. E brindiamo con un goccio di whisky, il ghiaccio non manca».

A mezzo secolo di distanza Rinaldo Carrer ricorda quell’epopea nei dettagli. Aveva 19 anni quando il conte Monzino lo scelse come uno degli assistenti, il più giovane, la mascotte del viaggio stupendo e folle alla ricerca di un obiettivo e di se stessi. Oggi torna all’impresa davanti a slitte, ciaspole, pelli di foca, punte di fiocine, attestati, fotografie dietro le teche del museo dedicato al grande esploratore milanese nella Villa Balbianello che fu sua, sul lago di Como, ora sito del Fai più visitato d’Italia.

Carrel è nato a Valtournenche, all’ombra del Cervino. Guida alpina e maestro di sci come il padre Marcello, amico di Monzino. «Li ascoltavo da bambino quando, guardando il cielo stellato, sognavano di ripercorrere la via della stella polare tracciata da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi. Ero affascinato». L’occasione arriva nel 1969, l’imprenditore-esploratore lo imbarca su un peschereccio per la ricognizione dei luoghi in vista dell’impresa: percorrono tutta la costa ovest della Groenlandia fino alla mitica Thule.

«Il viaggio serve per conoscere i villaggi e i loro capi, contattare le guide inuit, prenotare le slitte con i cani, mettere le basi logistiche per la spedizione. Gli Inuit sono un popolo fiero e orgoglioso della propria identità. Sbarcati dalla nave, con i cani andiamo da Jakobshavn a Qaanaaq, 1.070 chilometri. In quei luoghi è come navigare con la slitta al posto della barca, su una grande zattera di ghiaccio. Devi avere una conoscenza perfetta di baie, fiordi, correnti marine. E usare la bussola e il sestante come un marinaio. Sotto il pack, tutto è movimento».

L’anno successivo Monzino si spinge a Cape Columbia, attraversa il canale Kennedy e arriva alla base militare canadese di Alert. È l’estate delle scartoffie: lasciapassare, permessi, diplomazia. I danesi sono diffidenti, gli americani e i sovietici di più. Quella è una zona calda della Guerra fredda e l’esploratore deve convincere i governi che l’unico scopo della spedizione è seguire l’antica rotta del Duca degli Abruzzi. Nel 1971 tutto è pronto per l’assalto all’oceano Artico.

Agli ordini di Monzino partecipano Carrel, l’altra guida valdostana Minuzzo, l’ufficiale cileno Arturo Aranda, che aveva maturato esperienza in Antartide. Ci sono due danesi imposti dal governo e 23 Inuit con altrettante slitte trainate da 330 cani da lavoro groenlandesi. Fra loro spicca Talilanguak Peary, un cognome sospetto: è il pronipote del leggendario esploratore Robert Peary, che aveva avuto una relazione con una ragazza nativa.

«Siamo carichi di provviste: pemmican, i dadi da far sciogliere con cereali e proteine animali. Poi carne congelata, tagliamo con l’accetta le bistecche. Beviamo tè, tisane, intrugli. E Cebion effervescente per la vitamina C. Gli alcolici sono banditi dal giorno in cui, al campo base di Cape Columbia, gli esquimesi hanno preso d’assalto il deposito; Monzino fa distruggere le bottiglie davanti a tutti. Dobbiamo nascondere anche l’alcol denaturato per i fornelli da campo; lo inalano. Salviamo solo il whisky, eventualmente per brindare al Polo. Le donne esquimesi confezionano l’equipaggiamento: pantaloni di pelle d’orso, stivali di pelle di foca, giacconi di volpe. Sembriamo nativi, l’unico modo per vincere la natura ostile è vivere come loro».

È importante cogliere l’essenza di un’impresa attraverso il profilo di chi l’ha immaginata e poi realizzata. Carrel mette a fuoco e spiega: «Monzino era un leader riflessivo ma sapeva comandare e in ogni situazione chiedeva la garanzia della sicurezza: non perdere vite umane era primario. Per lui esplorare non significava conquistare ma conoscere, entrare in sintonia, assimilare la cultura locale. Inuit vuol dire “uomo”. Loro sono grandi cacciatori, vivono da millenni in un luogo impossibile e testimoniano che lì, in mezzo al nulla, esiste l’uomo. Oggi quell’approccio sarebbe impensabile, il mondo corre troppo veloce e non comunichiamo più. Non c’è feeling fra gli uomini, non ci interessa più conoscerci».

Ricordare i 70 giorni sul pack diventa dolce per rivivere il rumore di quell’aereo in picchiata, la bandiera dell’orgoglio. Ma nel racconto di Carrel c’è spazio anche per la paura. «Quando la spedizione si allontana dalla costa verso il deserto bianco cinque equipaggi si rifiutano di proseguire, sono nel panico. Tutto è più complicato senza riferimenti, non è come salire sull’Everest; lì hai una vetta da raggiungere lassù fra le nubi. Qui ti domandi: cosa ci stai andando a fare? Però vai, attratto da una forza magnetica che è lo spirito umano dell’avventura. Vai verso un punto inesistente alla latitudine nord, alla deriva. Puoi anche avere percorso 80 chilometri, ma fissando la rotta scopri che ti sei avvicinato solo di 15/20».

Al ritorno un contrattempo rischia di trasformarsi in tragedia. La stagione estiva sta avanzando, il sole sprigiona calore, la temperatura passa da -50 a -30 e il ghiaccio tende a sciogliersi. Nel pack si aprono canali, i blocchi diventano enormi zattere. Bisogna caricare la spedizione su tre aerei per tornare al campo base, ma l’ultimo non ha quasi più spazio per decollare. «Rischiamo di rimanere altri sei mesi sul pack; siamo preoccupati. Arriva un telegramma degli animalisti: ci impongono di salvare prima i cani. L’avevamo già fatto, erano partiti con il primo velivolo. Ci alziamo a un metro dall’acqua, come nei film di Hollywood. Al ritorno a casa è il problema è ritrovare l’equilibrio mentale e fisico, uscire dallo sfasamento di una vita senza la notte. Rientrare nella quotidianità è sempre la vera impresa».

Due anni dopo Monzino lo chiama di nuovo: obiettivo Everest. Una spedizione gigantesca, l’epopea delle grandi conquiste continua. Il ricordo del giovane esploratore è singolare. «Andiamo sul tetto del mondo con una missione militare di 60 persone. Oggi vedo fotografie che mostrano le lattine di Coca cola sulla via, ma non posso criticare… Con noi ci sono due elicotteri in grado di arrivare fino a 6.000 metri, partecipano per mettere a punto la strategia del soccorso alpino. Uno dei due precipita, si salvano i piloti e il tecnico ma la carcassa potrebbe essere ancora lì. Nessuno di quelli che salgono è esente da inquinamento».

Alla fine di quella stagione Rinaldo Carrel torna sotto il Cervino, rientra nella vita da guida alpina e maestro di sci. Insegna a padri, figli e nipoti ad amare la montagna. Anche ai suoi, ma con discrezione. Come testimone di un mondo perduto parla di quegli eventi artici con parsimonia. «Solo se interrogato, non voglio annoiare». Qualche settimana fa il nipote Gilles, 16 anni, ha chiesto al nonno di togliere dalla cameretta la grande mappa della Groenlandia per fare spazio a un poster. «È giovane, ha altri punti di riferimento. Ma un giorno, guardando la stella polare in una notte di vento, capirà».

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