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Quando la storia abbassa la saracinesca

Quando la storia abbassa la saracinesca

Negozi storici e artigiani stanno chiudendo un po’ dappertutto, messi a dura prova non solo dal caro bollette e dagli affitti sempre più costosi, ma anche dall’ondata inarrestabile di catene multinazionali, ristoranti etnici, mini market, bed&breakfast… Così, soprattutto nelle zone centrali, a sparire sono la qualità, il valore della tradizione e tante professionalità.


Dietro il bancone c’è ancora una vecchia foto con la dedica. Barbara Stanwyck, una delle più celebri dive di Hollywood dagli anni Trenta in poi, nei suoi soggiorni romani aveva una tappa fissa: il negozio di guanti Catello D’Auria. Qui la tradizione artigiana si è tramandata dal 1894. Hanno varcato l’ingresso in via Due Macelli politici e personaggi dello spettacolo. La regina Elisabetta si faceva mandare i pezzi più pregiati. Ora il negozio è sotto sfratto. Il proprietario non ce la fa più a pagare l’affitto. In questi giorni c’è la svendita di tutto il magazzino. Anche gli arredi, originali, di fine Ottocento saranno ceduti. Ciò che resta andrà al macero.

È l’ultimo guantaio di alta gamma della Capitale. «Con noi muore un pezzo della Roma storica ma anche tante competenze artigiane che avevamo selezionato negli anni» afferma il titolare, Alessio Ansuinelli. «I gusti sono cambiati, non c’è più il piacere dell’oggetto bello, di classe. Si cercano prodotti che vivono una stagione e poi si buttano. Dietro ai nostri guanti c’è tanto lavoro, tanta tradizione». «Quando una bottega chiude per sempre le serrande, si perdono pezzi di sapere che nessuno potrà più far tornare a vivere» commenta il segretario generale di Cna, la Confederazione degli artigiani, Sergio Silvestrini. I negozi storici chiusi, vengono sventrati; stucchi, specchi e vecchi arredi vanno al macero o nei casi più fortunati finiscono da qualche antiquario, anche questi in estinzione. In via dei Coronari, altra iconica strada romana, i negozi di antichità sono stati rimpiazzati da fast food, pizzerie al taglio, paninoteche, gelaterie. La tradizione del pane e dei dolci, appena sfornati, è stata spazzata via dai prodotti industriali.

È notizia di qualche giorno fa la chiusura del panificio-pasticceria Palombi, 124 anni di storia, in via Veneto. Alcuni casi hanno mobilitato anche la politica ma invano. Contro la chiusura del Caffè della Pace, 123 anni di storia, dietro Piazza Navona, frequentato da Federico Fellini, Giuseppe Ungaretti e Mario Monicelli, sono intervenute personalità dello spettacolo e della cultura, c’è stata una interrogazione parlamentare e ne parlato persino il quotidiano inglese The Guardian. «La diffusione dei B&B sta spopolando il centro storico. Vecchie drogherie lasciano il posto a mini market presi d’assalto dal turismo con pochi soldi in tasca» commenta Giulio Anticoli, presidente dell’Associazione delle Botteghe storiche di Roma. «I locali passando di mano, vengono distrutti. Quando ha chiuso l’enoteca Semi di vino del 1929, in via Alessandria, il bancone d’epoca, un vero gioiello, è andato perduto».

Le cause della fine sono molteplici. «Aumento spropositato degli affitti, riduzione dei clienti e pressing delle grandi catene o di rapaci gruppi finanziari stranieri» spiega Anticoli. Con le chiusure spariscono anche tante professionalità. In via Crispi se n’è andato un negozio di abbigliamento del 1920 esperto di stoffe inglesi. Le Sorelle Antonini, in via Quintino Sella, erano note come pieghettatrici e usavano macchinari a vapore dei primi del Novecento. Quell’atelier con 130 anni di storia ha servito Greta Garbo e Liz Taylor; lì fu realizzato il tessuto per l’abito bianco indossato da Marilyn Monroe nel film Quando la moglie è in vacanza del 1955. Il presidente di Federmoda Massimo Bertoni è preoccupato: «Roma ormai è un deserto. Il quartiere Monti si è svuotato, non ci sono più residenti, solo una miriade di B&B, minimarket e paninerie per un turista mordi e fuggi». In via Nazionale, su 120 attività quasi la metà ha abbassato la saracinesca, in via Frattina sono più di 20 i lucchetti chiusi tra alta moda, prêt-à-porter e caffè. Tengono solo le catene internazionali di abbigliamento e le grandi griffe. Ha ceduto anche l’alimentari Franchi in via Cola di Rienzo che da un secolo riforniva i residenti a Prati.

Il fenomeno interessa conmunque tutte le città. Secondo Confcommercio, da gennaio a settembre hanno chiuso 41.458 negozi al dettaglio. A Milano dal 2019 è scomparso il 20 per cento delle insegne tra bar, abbigliamento, calzature, ambulanti e cartolerie. Racconta Gabriel Meghnagi, presidente di Ascobaires, l’Associazione di corso Buenos Aires: «Ad arrendersi sono stati soprattutto i piccoli negozi di quartiere a conduzione familiare, soppiantati da altri generi. Al posto della vetrina di borse artigianali, per fare un esempio, ha aperto il fruttivendolo straniero o le attività che riparano i cellulari. Le catene di cibo da asporto spuntano come funghi». Venezia ha preso misure drastiche. Il sindaco Luigi Brugnaro ha sbarrato l’arrivo a nuovi punti vendita di bassa qualità in tutte le zone con vincolo culturale. Le attività cinesi in qualche anno sono passate da 80 a oltre 900, usando il meccanismo delle aperture e delle chiusure continue delle stesse società, per evadere il fisco. Un negozio ha riaperto e chiuso 19 volte nello stesso luogo.

La caratteristica di gran parte degli esercizi d’antan è che hanno rappresentato per generazioni, un punto d’incontro, al di là della finalità commerciale. È il caso di Zancanaro, storico negozio di abbigliamento di Piazza Ferretto, a Mestre, che a fine anno chiuderà i battenti dopo 124 anni. Le due eredi, le sorelle Marina e Anna Costantini, hanno deciso di ritirarsi. Sfogliando i ricordi di famiglia, rievocano quando i clienti arrivavano in carrozza, ed entravano anche per fare salotto. Qualche bottega ha tentato di riconvertirsi alla modernità per sopravvivere, ma alla fine ha dovuto arrendersi. Mario Gabbiato, a San Tomà, corniciaio e editore molto noto a Venezia, aveva raccolto l’eredità dal padre. La specializzazione erano gli specchi alla veneziana con ricci e rosette fatte a Murano. Alla fine degli anni Ottanta, siccome l’articolo non era più richiesto Mario ha virato verso la produzione di stampe, alcune commissionate anche ad artisti celebri, tra cui il fumettista e vignettista Altan. Ma non ce l’ha fatta.

A Torino, nell’ultimo decennio, sono scomparsi 409 negozi di vendita al dettaglio. I più colpiti sono quelli di abbigliamento, arredamento, le librerie e i ferramenta. Anche qui la storia si ripete. Caffè storici lasciano il posto a chi serve stuzzichini e aperitivi. In via Lagrange, per decenni, il punto di ritrovo era Gertosio, bar pasticceria. Il Covid ha dato il colpo finale di una crisi che si trascinava da tempo. Prima della pandemia ha chiuso i battenti il Caval’d Brons. Ai suoi tavoli si erano seduti Totò, Frank Sinatra, Ingrid Bergman, Ava Gardner, Orson Welles. L’affitto era salito a 25 mila euro mensili e così Vito Strazzella, ultimo titolare, si è arreso.

Scomparsa anche la libreria Paravia, in piazza Arbarello angolo via Bligny. Era la seconda più antica d’Italia. A inizio 2021 ha chiuso la storica bottega di libri Orsa maggiore. Niente da fare nemmeno per l’ultra centenaria profumeria Tina di via Sacchi. La biancheria cucita a mano è passata di moda o è solo il vezzo di pochi raffinati intenditori. Un trend che ha fatto vittime eccellenti come il più vecchio negozio di Mantova, aperto nel lontano 1836, la Casa del Bianco Norsa, situato all’interno della quattrocentesca Casa del Mercante, splendida, una sorta di monumento per i mobili di fine Settecento stile impero. Spesso la fine arriva per mancanza di un ricambio generazionale, con gli eredi che intraprendono altre attività. Com’è successo per le calzature Redaelli, a Sondrio, negozio fondato con l’Unità d’Italia, partito come una produzione artigianale di zoccoli, ciabatte e scarponcini, fino ad avere 12 punti vendita. L’erede ammette: «Nessuno di noi vuole continuare l’attività». «Ogni chiusura è un appello alla politica» afferma Silvestrini di Cna. Il rischio, avverte, «è di trasformare città e piccoli centri in deserti di cemento».

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