La città oltre lo stereotipo già logoro della «grande bellezza». La vera «dolce vita», gli incontri decisivi e i personaggi straordinari che si incontravano. L’autore di un libro-rivelazione dà la sua versione della Capitale. Tra nostalgia e profondità.
«Roma ha in sé un’ebbrezza particolare che brucia i ricordi. Più che una città è una parte segreta di voi, una belva nascosta. Con lei niente mezze misure, o un grande amore o ve ne dovete andare, perché questo la dolce belva richiede: essere amata». Il libro più bello, feroce, amaro, melanconico e disincantato sul rapporto tra un uomo e la sua città lo scrisse Gianfranco Calligarich, nel 1973. Lo scrittore, giornalista, sceneggiatore è l’autore de L’ultima estate in città, appena ripubblicato da Bompiani, terzo editore in 43 anni, ora tornato in auge come caso editoriale.
Dopo essere stato un libro di culto, oggetto di tesi di laurea, rivenduto al doppio del suo prezzo e poi perduto sulle bancarelle, a giugno ha vinto il prestigioso Premio Fitzgerald in Costa Azzurra. Il suo autore è stato paragonato a Truman Capote, Ernest Hemingway, Jonathan Franzen e Alberto Moravia. «E pensare che a Moravia non era piaciuto. Me lo disse tranquillamente: il personaggio non era ideologico. E per lui tutto doveva essere ideologico», ricorda lo scrittore di origine triestina, alter ego del protagonista Leo Gazzarra, mentre ancora una volta trascorre l’estate nella città che ha a lungo amato, spesso odiato e che oggi non ritrova più. Se non in qualche rara passeggiata notturna.
La pubblicazione del suo romanzo più famoso fu alquanto travagliata, nessun editore lo voleva. Cosa ricorda degli inizi?
«Erano i primi anni Settanta, scrivevo sceneggiature che mi lasciavano del tempo libero. Avevo voglia di raccontare questa storia. Finalmente potevo parlare di Roma, di cui era follemente innamorato. Ero talmente preso da lei, che quando arrivavo con il treno da Milano a Orte il cuore iniziava a battermi forte, come se di lì a poco mi stesse aspettando una fidanzata. Invece mi emozionava la città».
Giungla tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene. La descrive così Mastroianni ne La dolce vita. Per lei come era?
«Un riparo. Bellissima e affascinante. Un grande paese con le sue maestose rovine. Si respirava la Storia. E poi c’era un tipo di vita diverso. I film al cinema iniziavano alle undici e finivano all’una. Allora si usciva, dicendo: “Cosa si fa stasera?”. E si andava in giro per tutta la notte».
Lo scrittore André Aciman ha avvicinato Leo Gazzarra a Jep Gambardella, il protagonista de «La grande bellezza», entrambi immersi in vite vane. Cosa ne pensa?
«Mi fa molto arrabbiare. Il film non mi è piaciuto. Qualcuno mi disse che era ispirato al libro. A me non importava assolutamente nulla, il mio personaggio non c’entrava affatto. Paolo Sorrentino non è un regista che amo. Anzi lo detesto e non ho riconosciuto assolutamente niente che potesse collegarmi al suo film. Era tutto così snob, superficiale. Quando non sa cosa fare mette dei grandi uccelli che si alzano in volo. Se l’ha letto, allora l’ha letto male».
E invece Federico Fellini?
«Era meraviglioso. La dolce vita è un capolavoro. Non solo Mastroianni, ma tutti gli attori erano straordinari. Il padre che rifà il letto dove si è sentito male è una scena che ti strappa il cuore».
Prima di arrivare nella Capitale viveva a Milano, come era?
«Aveva una certa durezza. Erano gli anni del «miracolo economico», ma non c’era gioia di vivere, cosa che invece Roma aveva da vendere. Era una scoperta continua, una cosa fantastica. E così decisi di scriverne».
Anche lei visse da bohémien come il protagonista?
«Tutto quello che scrivo è in qualche maniera autobiografico. Anch’io avevo una storia d’amore con una ragazza fragile come Arianna. E certo non ero un uomo rassicurante. Per cui a un certo punto mi lasciò per un uomo di una ventina d’anni più grande».
E con lui fu felice?
«No, fu profondamente infelice. È passato tanto tempo, ma non ha mai voluto leggere il libro».
Dove lo scrisse?
«Vivevo in un vicolo dietro via Giulia, al primo piano di un antico palazzetto. Nessun editore lo volle, anzi non mi rispondevano neanche. Alla Garzanti allora c’era Giovanni Raboni, il grande poeta, che mi consigliò di farlo avere a Natalia Ginzburg. Lei lo lesse in una notte e disse che aveva illuminato “con disperata chiarezza il rapporto fra un uomo e una città, cioè tra la folla e la solitudine”. Mi telefonò la mattina seguente, ma io mi ero molto storto per come stavano andando le cose e le risposi che ero morto. Poi mi scusai. Mi consigliò di mandarlo al Premio Inedito e lo vinsi. Tutti gli editori che mi avevano snobbato ora lo volevano. Decisi di darlo a Garzanti. Venne pubblicato in 17.000 copie. Ebbe successo, ma poi la cosa finì nel nulla. Fu riscoperto dall’editore Aragno. Era come se il libro non volesse morire. Ebbe ancora un periodo di gloria e finì nell’oblio».
Invece in Francia è stato pubblicato da Gallimard, recensito, premiato. Come se lo spiega?
«Forse perché racconta il passato. Le cose sono talmente cambiate. Ricorda cosa è stata la città, cosa erano allora i rapporti tra le persone. E poi sono tanti anni che non esce più un libro d’amore filosofico e insieme sentimentale. A suo modo divertente. È una storia del passato, che era migliore del presente. Quanto era diversa Roma».
Oggi come è diventata?
«C’è un clima da fine dell’impero. Ormai è abbandonata a se stessa. Quando cammini per strada devi stare attento, guardare in alto, altrimenti i rami non potati possono accecarti. È smarrita, ha perso l’identità. E quel vitalismo che durava anche tutta la notte. C’è malinconia a guardarla e a viverci. È una città in demolizione. Ormai dismessa».
Un quadro poco incoraggiante per il sindaco che verrà.
«Non ho molta fiducia nei politici, gli basta arrivare a sedersi sulla loro poltrona. L’ultimo a fare un ottimo lavoro fu Francesco Rutelli. Con lui abbiamo avuto una botta di felicità. Lo rimpiansero in molti, forse perché era poco politico. Quando toccò a Walter Veltroni invece le cose non andarono come speravamo».
Cosa accadde?
«Fu un disastro. Chiuse l’Istituto del dramma italiano e non vidi mai una lira del premio che avevo vinto quell’anno. Ma lui continuava a dire che stavano lavorando a una nuova legge. Una stupidaggine assoluta. Chiuse l’unico ufficio che sosteneva i nostri teatri. E naturalmente non venne fatta nessuna nuova legge».
«Niente è più come un tempo», fa dire a Gazzarra.
«È una decadenza continua. Magari il passato sembra più scintillante perché eravamo giovani. Siamo invecchiati anche noi. Eppure mi spiace più per Roma, che per me».
Perché non ha «alzato le vele» e ha continuato a vivere qui?
«Faccio una vita molto appartata. Mi sono sposato due volte e ho ancora dei buoni amici. Non sopporterei di andare in tv a parlare. Non ci andrei mai, neanche se mi pagassero».
Cosa è rimasto delle sue origini cosmopolite?
«La mia famiglia era di origine greca, il nonno a Corfù mise al mondo cinque figli. Poi con la fine della guerra, nel 1918, si trasferì a Milano. Mio padre andò in Africa a impiantare una società di trasporti. Sono nato ad Asmara, dove ho ancora ricordi molto belli. Poi tornato a Milano iniziai a fare il giornalista. Fui mandato a Roma con l’incarico di trovare i programmi della Rai, che allora non li dava ai settimanali. Una signora molto carina, una specie di talpa, ogni venerdì mi passava di nascosto i palinsesti della settimana».
Ha amato i romani, come ha amato Roma?
«Molto, anche se ormai sono in estinzione. Stanno sparendo, come la loro città. Ricordo a via Veneto una donna molto grassa che camminava ondeggiando e un ragazzo in bicicletta che le urlava: «Balena, arridacce Pinocchio». I romani erano ironici, oggi trovo tutto involgarito».
Cosa è sparito per sempre?
«Le persone straordinarie, gli intellettuali, quelli che si riunivano al Caffè Rosati, in piazza del Popolo, come il poeta satirico Gaio Fratini. Ricordo che non guidava, perché secondo lui di un poeta che guida bisogna diffidare: o del poeta o della macchina. Andavo a prenderlo con la mia scassata Mg per andare a giocare a tennis. Abitava con una donna molto bella in un appartamento grande, con mobili eleganti, che vendevano mese dopo mese per continuare a fare la vita che a loro piaceva. Un giorno mentre aspettavo che finisse la borsa, immerso in un caos totale, mi disse: “Mia moglie ha un amante. Ma tutto questo miglioramento non lo vedo”. Straordinario. Era piacevolissimo vivere a Roma. Era viva, divertente. Adesso è una città morente».
