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Voglia di sicurezza

Voglia di sicurezza

Selve di videocamere di vigilanza spuntano dappertutto. In Italia sono due milioni (secondi in Europa) e ovunque nel mondo domina la tecnologia cinese. Un fenomeno in crescita che rende sempre più concreto il rischio «Grande Fratello».


Il mondo è sempre meno sicuro. O perlomeno, i cittadini chiedono ovunque maggiori tutele e, che se ne dica, sono disposti ad accettare anche un «Grande Fratello» elettronico. È quanto pare emergere dal mercato globale della videosorveglianza, le cui stime di crescita hanno già superato i 20 miliardi di dollari lo scorso anno e saliranno a 39 entro il 2023. Soltanto in Italia, che conta 362 società operanti sul territorio nazionale, il comparto della sicurezza vale ben 2,03 miliardi di euro. In particolare, è il settore della videosorveglianza (appunto, il «Grande Fratello») a primeggiare: dall’inizio del 2020 ha segnato un +11 per cento rispetto all’anno precedente, trainato da 30 società che hanno osservato un tasso di aumento delle vendite a doppia cifra.

Dunque, un mercato che cresce a grande velocità, complici le continue innovazioni tecnologiche di cui la ricerca si nutre, per restare al passo con i big del settore. In questo, però, il nostro Paese resta ai margini delle classifiche. Nella top 50, infatti, la leadership è ormai quasi esclusivamente appannaggio della Cina: ben 14 brand cinesi (di cui 13 specializzati in tv a circuito chiuso) coprono il 56 per cento dei colossi della security mondiale, con un fatturato complessivo di 14,5 miliardi di dollari. Primo e secondo posto spettano così a Hikvision e Dahua, rispettivamente con un fatturato di 7,7 miliardi e di 3,8 miliardi di dollari.

In Occidente, a competere con Pechino sono Londra (il Paese europeo con più apparecchi elettronici), grazie alle sue 68,4 videocamere ogni mille abitanti; e Atlanta (Stati Uniti), al decimo posto con 15,56 videocamere. La prima città italiana è Roma, che figura in 50esima posizione, con una media leggermente inferiore alle 2 telecamere (1,96) ogni mille abitanti. L’Italia, però, è complessivamente al secondo posto in Europa per quantità di telecamere, con circa due milioni di occhi elettronici a vigilare su di noi.

Un’eccezione è rappresentata dalla Svizzera italiana, con Lugano che emerge come la città più videosorvegliata del cantone, dove sono attive oltre 400 telecamere. Mentre a Chiasso vige un sistema sperimentale all’avanguardia perché, attraverso un’apposita convenzione, i comuni della regione sono stati riuniti sotto un unico apparato di monitoraggio del territorio (particolarmente bersagliato da rapine e assalti ai bancomat) composto da oltre 100 telecamere.

Ma, a parte ciò, è la Cina a cannibalizzare ogni primato, anche in senso negativo. Pechino già domina nella parte hardware della tecnologia della sicurezza, e oggi punta a intelligenza artificiale e software-spia, dove ancora per il momento resiste la concorrenza nordamericana. Si gioca qui la nuova Guerra Fredda tra Usa e Cina, con la Repubblica popolare cinese che però non ha rivali quanto a test e capacità di sperimentazione sulla popolazione (1,3 miliardi di cittadini senza possibilità di appellarsi alla privacy): basta setacciare le classifiche delle città del mondo con più occhi elettronici in funzione per constatare che si tratta, in buona parte, delle grandi metropoli della Cina centro-meridionale.

Il record appartiene a Chongqing, la «Chicago cinese» nonché la metropoli più grande del mondo, con oltre 32 milioni di abitanti. Secondo il sito specializzato Comparitech, qui sono in funzione 168 telecamere ogni mille abitanti, e complessivamente più di 2,5 milioni di apparecchi. Seguono Shanghai e Shenzhen, mentre nella capitale Pechino gli apparecchi installati sono «appena» 1,15 milioni, 60 ogni mille abitanti. Obiettivo del governo è arrivare a disporre di una telecamera ogni due abitanti entro cinque anni.

La pervasività dell’occhio tecnologico preoccupa, evidentemente, per le implicazioni sui diritti civili. Infatti, il monitoraggio spesso esula dal reale bisogno di sicurezza pubblica e dalle richieste di maggior protezione della proprietà privata per cui in teoria servirebbero le telecamere (non a caso, il Partito al potere si definisce ancora «comunista»): il riconoscimento facciale, per esempio, è ormai uno strumento per schedare e mappare ogni singola persona ed è stato già utilizzato dal governo del presidente Xi Jinping per costringere a tacere dissidenti e minoranze.

È quello che, d’altronde, abbiamo visto accadere con gli studenti di Hong Kong e la comunità musulmana degli Uiguri nella regione dello Xinjiang. Sempre più forti sono, inoltre, le interessenze e gli intrecci tra videosorveglianza e intelligenza artificiale (Ai). I due settori sono destinati a estendere in modo sempre più pervasivo il proprio impatto anche al di fuori del contesto della sicurezza industriale. Un segnale dell’accelerazione dell’Ai arriva dagli ultimi dati dell’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, che stima un mercato da 300 milioni di euro, in crescita del 15 per cento. Se tuttavia le aziende mostrano un atteggiamento sempre più aperto – il 53 per cento già utilizza l’Ai e il 40 per cento ha progetti operativi in corso – la sensibilità sta aumentando anche al di fuori del contesto industriale e imprenditoriale, con una crescita della consapevolezza anche tra i consumatori.

Tra le nuove e più critiche frontiere c’è l’analisi video, che sfrutta il cosiddetto «deep learning»: tramite le sue due componenti principali, l’apprendimento automatico e l’apprendimento profondo, l’Ai è già oggi in grado di garantire una diversificazione dei metadati e un calcolo enorme in contemporanea. Stanno facendo sempre più strada anche le soluzioni «edge-based» che offrono la possibilità, per esempio, di fornire avvisi istantanei quando viene rilevata una minaccia, con l’operatore che può verificare e dare rapida risposta.

La pandemia ha spinto anche a un maggiore utilizzo di soluzioni touchless, come il controllo degli accessi con riconoscimento facciale o il «tracciamento intelligente», che permette di ottimizzare l’utilizzo degli spazi a disposizione e semplificare l’accesso di mezzi e persone a luoghi all’aperto come al chiuso.

Rispetto a tutto questo il problema principale, che emerge con sempre più evidenza in un mercato così fluido, è che esso è, di fatto, in mano a poche aziende, con i maggiori protagonisti del settore rappresentati da multinazionali cinesi. Chi c’è dietro queste multinazionali? E, soprattutto, dove finiscono i nostri dati? «Con l’arrivo del 5G e della IoT (Internet of Things) stiamo immettendo sul mercato internazionale miliardi di dispositivi che dialogano in Internet» spiega Walter Bettini, ceo di Bettini Srl ed esperto di videosorveglianza. «Ciò significa che stiamo svelando miliardi di criticità e lasciando le chiavi appese a migliaia di “porte” che potranno essere aperte facilmente».

A spalancarle potrebbe essere proprio la Cina, di cui «colpisce l’atteggiamento spregiudicato, perché utilizza questi sistemi per operazioni quantomeno “borderline”, se non oltre i limiti consentiti» prosegue Bettini. «L’Europa non può più limitarsi a subire. È ora che cominci a generare nuove tecnologie per sottrarle mercato. L’esempio è ciò che è successo recentemente con il 5G. Fino a poco tempo fa era, di fatto, monopolio Huawei. Nel momento in cui l’Occidente si è reso conto che le chiavi delle comunicazioni, delle infrastrutture e della connettività erano praticamente in mano alla Cina, ha cominciato a muoversi. Bisogna ricreare un equilibrio». Tali argomenti sono già allo studio da parte degli esperti del governo italiano, impegnato tra «golden share» di società, adeguamento normativo e nuove leggi sulla privacy. Tutti temi di cui sentiremo sempre più parlare. n

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