Nonostante i record della crescita economica e le minacce ai «nemici esterni» di Xi Jinping, la somma del debito pubblico e di quello delle imprese, arrivata a cifre astronomiche, rappresenta una grave incognita nella marcia trionfale della potenza asiatica. E anche l’ambiziosa nuova Via della Seta ha i suoi problemi.
Poco più di un mese fa, lenta e solenne, la voce di Xi Jinping scendeva sulla folla dai megafoni appesi ai rostri dorati al sommo della Porta d’accesso alla «Città proibita», che i festeggiamenti per i 100 anni del Partito comunista cinese avevano trasformato nel simbolo del suo nuovo potere imperiale. I privilegiati raccolti davanti all’antico palazzo rosso, in piazza Tienanmen, ascoltavano estatici le bellicose parole del presidente: «I nostri nemici si romperanno la testa e verseranno il loro sangue contro una muraglia d’acciaio, forgiata da un miliardo e quattrocento milioni di cinesi…».
In realtà Xi, primo presidente a vita dopo Mao Zedong e come lui primo, vero grande dittatore della Cina, ha un nemico molto più insidioso degli Stati Uniti o del Giappone, contro i quali da mesi esercita un crescendo di minacce. È vero che Washington e Tokyo oggi sono il solo ostacolo concreto alla clamorosa marcia espansiva di Pechino che, intrecciando espansione economica, crescita tecnologica e corsa agli armamenti, punta chiaramente all’egemonia sul Pacifico (e oltre). Ma Xi sa bene che ha un nemico peggiore in casa. Tanto che molti analisti cominciano a ipotizzare che la crescente aggressività strategico-militare della Cina in campo internazionale serva soprattutto a coprire certe preoccupanti magagne interne.
In effetti, è vero che – nonostante il Covid – il 2020 è stato un anno di notevole crescita per Pechino, e nel 2021 la sua economia conoscerà un’accelerazione ancor più forte. Il Fondo monetario internazionale quest’anno stima per la Repubblica popolare un’espansione dell’8,1 per cento. È un ritorno ai ritmi forsennati degli anni Novanta, e un record mondiale: secondo il Fmi, quest’anno solo l’India dovrebbe crescere di più, il 12,5 per cento, mentre gli Stati Uniti dovrebbero fermarsi al 6,4. Un’aura di serenità avvolge anche i conti pubblici cinesi.Contrariamente a quanto è accaduto nel resto del globo, in Cina la pandemia non ha gonfiato il debito statale, che ne 2020 è aumentato del 7 per cento e ha raggiunto i 6 mila miliardi di dollari: oggi il debito è il 45 per cento del Pil, che a fine 2020 è arrivato a 12.700 miliardi di dollari e per dimensioni è secondo soltanto a quello statunitense.
Se i conti pubblici di Pechino sono gestibili, però, non può dirsi altrettanto del debito aggregato, cioè la somma del debito pubblico e quello d’imprese e famiglie. La Banca per i regolamenti internazionali di Basilea calcola che il debito aggregato cinese a fine 2020 abbia superato i 36.800 miliardi di dollari, e valga quasi il 290 per cento del Pil.
A pesare è soprattutto il debito delle imprese, che da solo vale il 161 per cento del Pil, cioè quasi 21mila miliardi di dollari. Cifre ciclopiche, insomma. Il Wall Street Journal stima che le grandi società cinesi siano esposte al mercato per oltre 800 miliardi di dollari di obbligazioni con scadenza nel 2021, e che prestiti per altri 750 miliardi andranno in scadenza nel 2022. È un fenomeno che provoca allarme crescente negli investitori, soprattutto in quelli esteri. Tant’è vero che, da gennaio a maggio, i declassamenti delle obbligazioni societarie cinesi deciso dalle società di rating sono più che triplicati rispetto ai primi 5 mesi 2020: sono stati 366, contro i 109 di un anno fa. Negli ultimi mesi, del resto, molti grandi gruppi sono finiti nei guai per serissimi problemi d’indebitamento: in aprile Huarong Asset Management, primo gestore patrimoniale del Paese, una specie di Lehman Brothers cinese, non ha pubblicato il bilancio 2020.
Risultato? Crollo delle azioni, panico tra gli obbligazionisti e scambi bloccati alla Borsa di Shanghai. Poi si è scoperto che Huarong è insolvente per 78 miliardi di dollari: da allora, mese dopo mese, il governo impone alle grandi banche pubbliche di finanziare la società per permetterle di onorare le scadenze obbligazionarie. Intanto il debito del gruppo è stato declassato da Fitch e l’a.d. di Huarong, ovviamente un alto papavero del Partito comunista cinese, è stato giustiziato per «corruzione».
Ma Huarong non è la sola. In marzo la China Fortune Land Development, tra le prime compagnie immobiliari, è crollata come un castello di carte e ha dichiarato il default su un bond da 530 milioni di dollari. In maggio Tsinghua, un simbolo della tecnologia cinese che produce chip e semiconduttori, il cui debito supera i 31 miliardi di dollari, ha ammesso di non poter ripagare un bond da 200 milioni. Il gruppo Evergrande, un gigante del real estate, non sa come pagare obbligazioni arrivate in totale a quasi 20 miliardi di dollari. Hna, un colosso diversificato nell’aviazione, nell’immobiliare, nel turismo e nella logistica, è in grave affanno perché indebitato addirittura per 185 miliardi.
L’allarme sul debito non riguarda soltanto i colossi cinesi, anche le piccole e medie imprese. In luglio, Standard & Poor’s (S&P) ha rivelato che «il contagio del debito è sistemico, e accresce la fragilità finanziaria dell’intera Cina». Sempre secondo S&P, decine di migliaia di piccolo e medie imprese sono all’insolvenza e potrebbero trascinare con sé le banche locali che hanno prestato loro denaro.
«Nel 2020 è fallito il 18,5 per cento delle piccole e medie imprese cinesi, rispetto al 6,7 per cento del 2019», scrivono gli analisti di S&P, «e la tendenza continua nel 2021». Impossibile stabilire il valore del debito totale delle Pmi, ma dato che sono soprattutto le banche rurali a prestare loro denaro, S&P stima che «almeno il 20 per cento della loro esposizione riguardi questo tipo d’imprese». Il rischio è una sequenza di fallimenti bancari senza precedenti.
Molti osservatori sostengono che la situazione debitoria stia affossando anche il ciclopico piano per la Nuova Via della Seta, che crollando potrebbe innescare una crisi da indebitamento su larga scala. Secondo la Banca mondiale, per costruire ferrovie, autostrade, porti e altre infrastrutture in oltre 50 Paesi, negli ultimi otto anni la Cina ha investito almeno 500 miliardi di dollari, 300 dei quali attraverso banche statali o fondi garantiti dallo Stato. Il problema che oggi sta emergendo è che molti degli Stati coinvolti, cioè una ventina di Paesi in via di sviluppo, tra cui Argentina, Ecuador, Laos e Pakistan, e circa 20 Paesi africani a partire da Kenya, Congo, Angola, Tanzania e Zambia, hanno contratto prestiti troppo onerosi con la China Export-Import Bank e con la China Development Bank, le due banche capofila cui il governo di Xi Jinping nel 2013 ha affidato il compito di coinvolgere i governi nel grande piano. Soprattutto in Africa, la natura troppo onerosa e le clausole-capestro dei prestiti cinesi hanno danneggiato le economie locali, perché in molti casi l’insolvenza dei governi ha concesso a Pechino d’impadronirsi di risorse nazionali, soprattutto miniere e imprese di Stato.
A questo punto, però, la Nuova Via della Seta potrebbe rivelarsi un boomerang anche per la Cina, perché l’insolvenza di troppi governi coinvolti nell’opera sta impedendo alle banche cinesi di rientrare dei prestiti. Il Financial Times segnala che 18 Paesi africani (i più importanti sono Tanzania, Kenya, Congo, Mozambico e Somalia) e 12 governi asiatici (i principali sono Pakistan e Laos) hanno avviato tentativi di rinegoziazione del debito con Pechino per cercare di ristrutturare circa 30 miliardi di dollari di prestiti. Il quotidiano sostiene anche che «la spirale del debito spingerà inevitabilmente la Cina a frenare sulla Nuova Via della Seta». Sarebbe uno smacco clamoroso per Xi e per il suo regime. E forse uno spunto per aumentare ancora l’aggressività contro l’Occidente.