Una notifica sbagliata potrebbe cancellare la condanna di Innocent Oseghale per l’omicidio e lo scempio del cadavere della diciottenne di Macerata Pamela Mastropietro. E la famiglia promette azioni clamorose.
«Tappezzeremo l’Italia con le foto del corpo straziato di Pamela; se ci sarà negata la giustizia tutti devono sapere, tutti devono vedere». Marco Valerio Verni è un avvocato di lungo corso nonostante la giovane età, ma stavolta non riesce a contenere il suo sdegno. «Mia sorella, la mamma di Pamela, è affranta. Ma non ci arrendiamo: faremo di tutto perché emerga la verità». È un urlo quello che si leva dalla famiglia di Pamela Mastropietro e che pone inquietanti interrogativi su come è stata fatta l’inchiesta sull’assassinio e lo stupro della diciottenne romana il cui corpo venne ritrovato ridotto in pezzi con la testa staccata dal tronco in due trolley abbandonati nelle campagne di Macerata.
Innocent Oseghale, il nigeriano poco più che trentenne, condannato in primo grado all’ergastolo per questo crimine potrebbe riuscire in appello a farla franca e, tra pochi mesi, uscire dal carcere. Tutto per un errore della Procura di Macerata che ha sbagliato le notifiche. È un vizio di forma che la Cassazione ritiene insuperabile. Un vero shock per la famiglia di Pamela e per Macerata, la città teatro dello scempio.
È il 31 gennaio del 2018, la ragazza è stata ammazzata in un appartamento il giorno prima. Il 29 gennaio si è allontanata dalla Pars, una comunità di recupero di Corridonia, per tornare a Roma da sua madre. Di Pamela in fuga hanno approfittato in due, poi il 30 gennaio ha incontrato Innocent Oseghale. Lo ha seguito a casa, in via Spalato, con la promessa di un po’ di eroina e lui, stando al processo di primo grado, l’ha prima violentata e poi l’ha ammazzata con due coltellate al fegato e l’ha fatta a pezzi. Tutto questo è cristallizzato nella sentenza di primo grado del 28 maggio 2019 ma potrebbe tornare nella nebbia dell’incertezza.
La Cassazione, il 28 febbraio scorso, ha appunto stabilito che sono nulle le perizie tossicologiche, istologiche e la seconda autopsia fatta sui resti della ragazza perché la notifica a Oseghale non fu fatta nel carcere di Montacuto dove venne rinchiuso subito dopo l’arresto, ma allo studio dell’allora suo difensore d’ufficio. Dunque quegli atti istruttori vanno ripetuti oppure non esistono. Che è come dire stiamo per consentire a Oseghale di evitare l’ergastolo.
«Purtroppo questo rischio è concretissimo» dice Marco Valerio Verni. «I reperti istologici non ci sono più, è difficilissimo ripetere gli esami. Mi batterò per chiedere alla Procura generale di opporsi alla richiesta della difesa della ripetizione delle perizie e di acquisire comunque le risultanze di primo grado». È un vizio che c’è sempre stato nel processo e che i due avvocati di fiducia di Innocent Oseghale – Simone Matraxia e Umberto Gramenzi – hanno costantemente ricordato al procuratore della Repubblica di Macerata Giovanni Giorgio. Al punto che il 26 novembre 2018 i due difensori chiesero per Oseghale il rito abbreviato. In quel caso la nullità delle notifiche sarebbe stata superata. La Procura lo sapeva bene tanto che d’accordo con i difensori non si oppose al rito abbreviato, ma il Gup Claudio Bonifazi respinse la richiesta che avrebbe comportato un fortissimo sconto di pena per il nigeriano. Si è così arrivati davanti alla corte di assise dove le perizie del professor Rino Froldi, tossicologo, e del professor Mariano Cingolani, anatomopatologo, sono state decisive per la condanna. Ma ora quei loro accertamenti sono stati cancellati. Matraxia e Gramenzi potranno sostenere con più forza che Pamela Mastropietro è morta per overdose, potranno smontare le accuse e puntare alla condanna Oseghale solo per vilipendio del cadavere, colpa di cui peraltro il nigeriano si è sempre accusato.
A fronte del provvedimento della Cassazione, sorgono oggi moltissimi dubbi su come è stata condotta l’inchiesta. Il procuratore Giovanni Giorgio ha fatto di tutto per escludere che Oseghale avesse dei complici, ha sempre rifiutato l’ipotesi che facesse parte della mafia nigeriana il che avrebbe comportato un rafforzamento dell’accusa. Inoltre, c’è da domandarsi perché l’inchiesta sia stata condotta in gran fretta. L’allora ministro di Giustizia Andrea Orlando del Pd venne a Macerata, appena devastata dal raid di Luca Traini contro le persone di colore e sotto shock per la morte di Pamela, e si chiuse quattro ore in una stanza col Procuratore. Bisognava «troncare e sopire» come avrebbe chiesto il Conte Zio di manzoniana memoria? È certo che in quei giorni l’amministrazione di Macerata era sottoposto a un’offensiva politica pesante e con il nigeriano in galera si poteva pensare di calmare le acque. L’inchiesta ebbe una fortissima accelerazione. Non furono sentiti possibili testimoni, si fecero indagini sommarie alla Pars dove è certo che Pamela Mastropietro abbia continuato ad assumere droga il che renderebbe remota l’ipotesi di un’overdose, non si indagò più su altri nigeriani all’inizio ritenuti complici di Oseghale.
Fu in quella fase che spuntò il pentito di ‘ndrangheta Vincenzo Marino che disse di aver raccolto nel carcere di Ascoli – dove era detenuto con Oseghale – le confessioni di quest’ultimo. Marino in udienza ripeté come rivelazioni il quadro accusatorio predisposto dalla Procura. Ma nella sentenza di primo grado è stato definito inattendibile. «Mi chiedo» aggiunge Verni «se la testimonianza di Marino, che pure io ho sostenuto, non sia stata utilizzata per creare un secondo pilastro all’accusa, sapendo che le perizie potevano essere cancellate dalla Cassazione. Ora però in Appello abbiamo solo la prima autopsia fatta dal dottor Antonio Tombolini prima che Oseghale fosse arrestato».
Ma Tombolini in primo grado non ha dato un parere risolutorio. Ha affermato: «Si è trattato o di overdose o di un colpo d’arma da taglio. La lesione macroscopica al costato potrebbe essere stata fatta a cuore battente, ma sottolineo potrebbe». Questo è ciò rimane di un lavoro d’inchiesta che Verni giudica non del tutto approfondito: «Dopo oltre un anno dal delitto in via Spalato abbiamo trovato mozziconi di sigaretta mai analizzati e abbiamo raccolto testimonianze fino ad allora ignorate». Tra un paio di mesi ad Ancona ci sarà l’appello.
«Se ci sarà lo strazio della Giustizia l’Italia vedrà lo strazio di Pamela». Parola di uno zio che è anche avvocato.