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Cuba, finita la rivoluzione vince la repressione

Cuba, finita la rivoluzione vince la repressione

Povertà sempre più diffusa, blackout elettrici, esodo record di migranti. Il regime dell’Avana risponde al collasso dell’economia soffocando duramente le proteste. Con uno strano silenzio degli Stati Uniti.


«Oggi a colazione ho potuto mangiare solo pane raffermo che ho portato dall’Avana diversi giorni fa, perché nella mia amata terra non ci sono solo oltre mille “prigionieri di coscienza”. Anche il pane è stato fatto prigioniero dal comunismo». Non usa giri di parole padre Kenny Fernández Delgado, il prete-coraggio della parrocchia di Madruga, provincia di Mayabeque, nella zona occidentale di Cuba, la più misera. Il problema è che in tutta l’isola caraibica da un paio di mesi è stata eliminata la libera vendita del pane in pesos cubani negli stabilimenti statali, e chi non dispone di dollari non riesce a comprarlo fresco neanche con la tessera annonaria.

Quello denunciato da padre Kenny è l’ultimo atto di 63 anni di dittatura che, in Italia, si finge di non vedere. «Il comunismo si è preso la mia carne bovina da prima che io nascessi. Mi ha portato via il latte quando avevo 7 anni e ora, a 37, anche il pane. Cos’altro mi sottrarranno? Toglietemi tutto e fatela finita, come hanno fatto con Gesù Cristo il venerdì santo, almeno saprò che la domenica della Pasqua di resurrezione è più vicina» si sfoga il prete che poi invita tutti a «pregare per Cuba».

E di preghiere ce n’è davvero bisogno perché la carenza di cibo unita a interminabili blackout elettrici, l’ultimo problema dell’isola, e a un’inflazione record che aumenta senza sosta sta scatenando un enorme malcontento tra la popolazione. «Rider Gonzalez, il proprietario di un piccolo caffè della capitale, deve stampare nuovi menu ogni giorno per stare al passo con l’aumento dei prezzi in pesos cubani» denuncia l’agenzia di notizie britannica Reuters, rilanciata su Twitter dal professore della John Hopkins University Steve Hanke, l’ex economista preferito da Ronald Reagan e tra i massimi esperti di inflazione. «L’ho calcolata lo scorso 9 settembre: a Cuba è arrivata alla sbalorditiva cifra del 158 per cento su base annua» spiega a Panorama. «È la seconda più alta del pianeta, superata solo da quella dello Zimbabwe. Non c’è da stupirsi che così tanti cubani stiano saltando sulle barche, cercando di fuggire». L’alternativa alla miseria, del resto, è come sempre l’emigrazione di massa verso gli Stati Uniti. Non a caso, l’esodo dei migranti cubani è esploso del 1.000 per cento in più rispetto al 2021 secondo la US Customs and Border Protection, ovvero le autorità di frontiera statunitensi.

La «grande fuga» è iniziata lo scorso novembre, quando i presidenti di Cuba e Nicaragua hanno eliminato i visti prima necessari per andare a Managua, con l’obiettivo di facilitare il meccanismo di uscita dall’isola di Castro e smorzare le recenti tensioni che si sono create con manifestazioni imponenti e una feroce repressione. Un trattamento simile a quello usato da Fidel tre decenni fa, quando lo scontento sociale all’Avana esplose. Il dittatore aprì il «rubinetto» dell’emigrazione con conseguente storico esodo del 1980, che vide la partenza di 125 mila cubani dal porto di Mariel su centinaia di barche. Oggi la strategia si ripete in quella che è stata ribattezzata la «Mariel silenziosa»; un fenomeno che ha battuto ogni record visto che da novembre 2021 a fine agosto 2022 sono già oltre 180 mila i cubani approdati sulle coste Usa con ogni mezzo, inclusi i pedalò. Nonostante l’emorragia di migranti, in massima parte giovani, a Cuba la situazione oggi è esplosiva come nel luglio 2021, quando migliaia di persone scesero in strada per chiedere libertà e cibo e furono arrestati e massacrati di botte. La differenza è che stavolta la violenza è cresciuta al pari delle contestazioni dei cittadini, che ormai ogni giorno insultano il presidente Miguel Díaz-Canel, le forze dell’ordine e i funzionari del partito comunista. Emblematica la rivolta a Los Palacios, una città nella provincia più occidentale di Pinar del Río, dove in migliaia si sono mobilitati lo scorso 14 luglio per protestare contro l’ennesimo blackout. I video girati nell’oscurità durante l’interruzione dell’elettricità non lasciano spazio a dubbi: la folla grida «abbasso il comunismo», «ho fame» e «Díaz Canel singao», un’espressione locale che non è propriamente un complimento, in italiano suona come «coglione».

Dall’Avana a Guantánamo, Cuba è allo stremo e non solo per i blackout. I mercati sono vuoti. Il poco cibo che si vende dev’essere pagato in valuta pregiata. La fornitura di acqua potabile è scarsa e il trasporto pubblico inesistente. I centri sanitari sono fatiscenti e la mancanza di medicine è aggravata dalla carenza di dottori, mandati all’estero a forza dalla dittatura – si ricordi le recenti polemiche sui 500 che dovrebbero arrivare in Calabria – per fare cassa in euro e dollari.

«I berretti neri, sguinzagliati di nuovo da Díaz-Canel un po’ ovunque per reprimere, potrebbero non bastare più perché se qualcosa differenzia questa fine estate del 2022 sull’isola, è che i cubani hanno perso la paura» dice il giornalista indipendente cubano Iván García. «Le proteste pacifiche di strada sono aumentate, anche se alcuni preferiscono bruciare stabilimenti statali vuoti, rompere finestre o dipingere manifesti contro la dittatura». E assicura: «Tra blackout, manifestazioni, incendi, code e carenze diffuse Cuba è una polveriera in procinto di esplodere». In un contesto simile, con un regime che, lo scorso 13 settembre, è arrivato addirittura ad espellere il superiore dei Gesuiti, padre David Pantaleón per i suoi commenti critici nei confronti della dittatura, appaiono incomprensibili le aperture del presidente Joe Biden che ha appena permesso di aumentare i voli verso l’isola e aprire ai viaggi di gruppo, ha fatto cadere il limite di mille dollari sulle rimesse inviate dagli Stati Uniti e ha autorizzato una società Usa a offrire un credito e a fare investimenti in un’azienda cubana. Non solo tali aperture non sono servite a nulla, ma hanno coinciso con il ritorno della repressione più feroce all’Avana, che sta condannando centinaia di artisti e comuni cittadini a lunghe detenzioni solo per aver manifestato pacificamente il proprio dissenso.

«Che ne è stato del Biden che aveva chiesto conto al regime dei suoi crimini contro il popolo durante le proteste dell’11 luglio del 2021?» si domanda il Wall Street Journal in un editoriale visto che non sono mai stati tanti i prigionieri politici: oltre un migliaio. In questo contesto oppressivo, il fatto che il leader statunitense abbia deciso di premiare Cuba con misure di sostegno senza chiedere nulla in cambio ha stupito tutti. Washington ha spiegato che ha rimosso le sanzioni introdotte da Donald Trump «per offrire al popolo cubano gli strumenti per perseguire una vita libera e cercare maggiori opportunità economiche».

Il problema è che la tragedia cubana deriva dalla repressione del regime e dalle sue politiche economiche, che hanno portato a risultati disastrosi in tutti i Paesi in cui sono state sperimentate, si pensi al collasso dell’Unione sovietica. Se l’amministrazione americana volesse davvero «vedere la fine della fame e della scarsità di cibo a Cuba» scrive ancora il quotidiano economico «dovrebbe convincere Raúl Castro a liberare l’attività economica e gli agricoltori arrestati solo per cercare di vendere i loro prodotti». Aggiunge infine l’ultima domanda, forse la più inquietante: perché Biden, pur avendone i mezzi tecnologici, non ha mantenuto la promessa fatta un anno fa, ovvero fornire l’accesso gratuito a internet a tutti i cubani? Perché questo strumento di potenziale, ulteriore libertà è troppo pericoloso per un regime messo sempre più nell’angolo dalla realtà.

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