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Polveriera Molenbeek

Polveriera Molenbeek

A Bruxelles, vicino alle istituzioni europee, c’è un’area che è ormai fuori controllo dove prosperano traffici criminali. E dove una realtà chiusa, dopo essere stata rifugio per feroci terroristi, alimenta l’integralismo religioso.


Molenbeek, piccolo quartiere operaio poco fuori dal centro storico di Bruxelles e a due passi dal Palazzo di Giustizia. Qui, negli ultimi mesi, bande di narcotrafficanti locali controllate da albanesi e marocchini combattono nelle strade, imbarazzando i vertici della città-sede dell’Unione europea e l’intera classe politica belga. Ogni giorno si assiste impotenti a sparatorie, aggressioni all’arma bianca, spaccio e risse. Mentre di notte le auto parcheggiate vengono date alle fiamme e i raid tra clan rivali si moltiplicano in un clima da «guerrieri della notte». Tanto che, alla data in cui scriviamo, si è svolta a Molenbeek le tredicesima sparatoria in meno di 90 giorni, di cui una a pochi passi da una scuola elementare.

Il timore è che il problema non riguardi soltanto l’ordine e la quiete pubblica, ma soprattutto che una nuova generazione di jihadisti possa emergere silenziosamente, grazie all’omertà e alla connivenza dei suoi circa 100 mila abitanti, in maggioranza immigrati provenienti dal Nordafrica e dai vicini Paesi arabi, che nei sussidi delle associazioni islamiche e nel traffico di stupefacenti trovano l’unico mezzo di sostentamento, peraltro in un periodo di estrema disoccupazione post pandemico.

Molenbeek non è sempre stato così. Negli ultimi due secoli ha ricevuto molti soprannomi: un tempo il quartiere era noto come «piccola Manchester» per via delle masse operaie che lo popolavano (italiani in primis); per poi divenire a fine Novecento «petit Maroc», all’epoca in cui la decolonizzazione portò nel Nord Europa lo spirito del multiculturalismo. Fallito quel progetto a livello politico e sociale, si è passati nel nuovo millennio ai poco lusinghieri appelativi di «Mosul d’Europa» o, peggio, «Bruxellistan». Questi soprannomi hanno corrisposto al lento ma inesorabile degenerare del quartiere in un ghetto per soli abitanti di fede islamica sempre più radicale. Ultimamente, la sua «fama» internazionale è dovuta soprattutto alle cronache del 2015, quando nei vicoli di Molenbeek rimase nascosto e protetto per quattro lunghi mesi Salah Abdeslam, uno dei killer del commando che mise in atto le stragi parigine del 13 novembre 2015 (130 morti).

Oggi il quartiere è dunque il cuore pulsante dell’Islam estremista d’Europa, crocevia di traffici di droga e mèta dell’immigrazione illegale dalle sponde meridionali del Mediterraneo. Le statistiche sono impietose: in questo quadrilatero di sei chilometri quadrati, su 30 mila controlli nei confronti di altrettante persone, l’intelligence belga ha scovato 70 giovani radicalizzati su un totale di 640 sospetti terroristi. Un recordo europeo che fa di Molenbeek di gran lunga la base logistica preferita dei jihadisti dell’Europa settentrionale, nonché il luogo più pericoloso dove avventurarsi senza le dovute precauzioni.

E infatti, nella piccola stazione di polizia locale, ultimo fortino di legalità in un reticolo di strade governate dalla sharia (la rigida legge islamica), si fatica enorememente a contenere un fenomeno in crescita anche a livello demografico. Soltanto una decina di giorni fa un giovane spacciatore, a poche ore dal suo arresto per rissa, è riuscito a darsi alla macchia fuggendo dal bagno della cella di detenzione del commissariato.

Un fatto che ha rinfocolato le polemiche sui mancati fondi e investimenti per riqualificare l’area urbana, da oltre un decennio ostaggio di veti incrociati e accuse di intolleranza verso la municipalità. E che ha portato Rachid Barghouti, portavoce del presidente del municipio di Molenbeek, Catherine Moureaux, a dichiarare sconfortato: «La polizia è a corto di 200 agenti. Inoltre, il mondo della droga è cambiato e un aumento di armi e denaro provoca sempre più violenza. Mentre prima il giro era di pochi milioni di euro, ora si tratta di decine di milioni. La realtà del traffico di droga è cambiata. Possiamo trattare con piccoli spacciatori ambulanti, ma tutto ciò è molto oltre, anche per la quantità di armi che questi criminali possiedono».

Fino al 2012, per vent’anni la città-quartiere era stata governata da un sindaco socialista, il professore universitario Philippe Moureaux, uomo politico belga che era stato anche ministro degli Interni e delle Riforme istituzionali. Fu lui a proporre Molenbeek come esperimento multiculturale. Il suo modello – un cavallo di battaglia non solo a livello nazionale ma ripreso anche a Parigi – non ha tuttavia portato i frutti sperati. Al contrario, i suoi princìpi di accoglienza e il desiderio di inclusività si sono presto trasformati in meri sussidi ad associazioni islamiche e in affitti agevolati dei locali comunali a scuole coraniche e centri sociali di dubbia utilità: trasformando l’aspetto della zona in una cittadella mediorientale, dove si veste all’araba, proliferano le moschee e i negozi halal, le donne vanno in giro esclusivamente velate e non si trova più un negozio belga (o italiano, visto che a Molenbeek trovarono appunto rifugio i primi immigrati del nostro Meridione).

L’influenza dei Fratelli musulmani qui è evidente, come in tutto il Belgio. La Fratellanza è l’organismo dell’internazionale islamica che si rifà al wahhabismo (una corrente fondamentalista dell’Islam di matrice prevalentemente saudita), e che dagli anni Sessanta forma e finanzia schiere di imam; i quali, spesso, da divulgatori del Corano si trasformano in reclutatori di miliziani da immolare nella Guerra Santa contro l’Occidente. Come Bassam Ayachi, irriducibile predicatore di origine siriana e ideologo della principale moschea del quartiere, da dove inneggiò alle stragi dell’11 settembre 2001. Ayachi è un vero combattente del jihad, tanto che nel febbraio del 2015, alla veneranda età di oltre 70 anni, ha perso un braccio combattendo in Siria, così come un suo figlio si è immolato per la causa facendosi saltare in aria.

L’episodio più drammatico riguarda ancora Salah Abdeslam, condannato all’ergastolo per i fatti del Bataclan il 29 giugno 2022, ma ancora pericoloso per il cattivo esempio che ha offerto di sé durante il processo-show sull’eccidio di Parigi. Dopo aver mantenuto un atteggiamento sprezzante per tutte le udienze e aver ostentato una lunga barba incolta come usano i salafiti, questo cittadino francese di origine marocchina, cresciuto a Molenbeek, ha rinunciato all’appello e chiesto ai belgi «di odiarlo con moderazione» perché in realtà, pur avendo aderito all’Isis, in quelle stragi «non c’era niente di personale, abbiamo voluto far subire alla Francia lo stesso dolore che noi subiamo».

Questa mentalità, e la protezione di cui il famigerato fuggitivo ha goduto durante la latitanza, dimostrano la profondità di penetrazione e radicamento dell’estremismo islamico a queste latitudini. A Molenbeek il legame tra Fratelli musulmani e jihadisti non appare molto diverso dal legame «speciale» tra talebani e qaedisti, che ha permesso per esempio ad Ayman al Zawahiri, ovvero una delle mente dell’attentato alle Torri Gemelle (ucciso dalla Cia domenica 31 luglio a Kabul mentre si affacciava al terrazzo di casa), di vivere impunemente a poche decine di metri dalle ambasciate occidentali, facendosi beffe di tutti.

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