La sua estrazione rappresenta un traffico fiorente, di cui si parla poco. Spiagge di tutto il mondo, Italia compresa, erose dal fabbisogno dell’industria edile (Cina e India in testa), dagli affari delle ecomafie,
persino da un turismo «disinvolto» a caccia di discutibili souvenir. Ma le conseguenze sull’ecosistema costiero sono pesanti.
«Solo un souvenir» hanno cercato di giustificarsi due turisti francesi di fronte ai finanzieri intenti a ispezionare la loro auto durante un controllo agli imbarchi di Porto Torres, nell’agosto 2019. Stipati in 15 bottiglie di plastica nel bagagliaio del loro Suv avevano 80 chilogrammi di sabbia finissima della spiaggia di Chia, nel sud della Sardegna.
Un caso tutt’altro che isolato: l’anno scorso, da maggio ad agosto, sono stati recuperati nel nostro Paese 900 chilogrammi di sabbia. Al fiorentissimo business intorno al «nuovo oro», ha dedicato un libro inchiesta Vince Beiser, giornalista del New York Times. In Tutto in un granello. Come la sabbia ha trasformato la nostra civiltà (edito in Italia da Aboca) scrive: «La sabbia è per le città quello che la farina rappresenta per il pane: è l’ingrediente invisibile, ma fondamentale, che costituisce il nucleo dell’ambiente urbano in cui vive la maggior parte di noi». Dopo l’acqua e l’aria, è l’elemento naturale che l’uomo utilizza di più.
Oggi, per esempio, l’industria edile mondiale consuma ogni anno circa 130 miliardi di dollari di sabbia. Secondo Pascal Peduzzi, direttore del Grid, Global resource information database di Ginevra, la sola Cina ha usato più cemento (composto di sabbia e ghiaia) tra il 2011 e il 2013 rispetto a quanto hanno fatto gli Stati Uniti in tutto il XX secolo. Dal 2000, Shanghai ha aggiunto sette milioni di persone ai suoi abitanti, toccando i 24 milioni di residenti. In 10 anni, ha costruito più nuovi grattacieli di tutti quelli che si trovano a Manhattan. La sabbia con la quale sono stati eretti è arrivata quasi esclusivamente dal Lago Poyang, il più esteso della Cina: era la maggiore riserva di acqua potabile del Paese, ora è secco per molti mesi dell’anno.
Ed è solo uno dei danni collaterali di questa corsa alla sabbia. La sua estrazione distrugge l’habitat della fauna selvatica, danneggia i fiumi e devasta i terreni agricoli. Non è, oltretutto, un bene illimitato. Si stima che circa metà dei 40 miliardi di tonnellate ottenute ogni anno non verrà mai ricostituita: è il doppio del totale annuo dei sedimenti trasportati da tutti i fiumi del mondo. Non è solo la Cina a consumarne quantità illimitate. Negli ultimi vent’anni l’India ha triplicato il suo fabbisogno di sabbia; sempre dal 2000, Singapore ne ha importata per 517 milioni di tonnellate, stabilendo un record mondiale di 5,4 tonnellate per abitante. In Indonesia 24 isole sono scomparse, divorate dalle scavatrici.
In un anno, secondo il Programma delle Nazioni unite per l’Ambiente, il mondo usa tanto cemento quanto ne servirebbe per costruire intorno all’equatore un muro alto 27 metri e largo altrettanto. Nel 2017 un’analisi della US Geological survey ha sottolineato che i due terzi delle spiagge del Sud della California potrebbero sparire entro il 2100 anche a causa dell’utilizzo senza freni della sabbia, che insieme al problema del riscaldamento globale è il maggior fattore di rischio per l’ecosistema costiero. Mentre un recente studio su Nature calcola che entro i prossimi tre decenni potrebbero andarsene 36.097 chilometri di coste sabbiose, pari al 13,6 per cento di quelle identificate dalle immagini satellitari del Joint research centre (Jrc) della Commissione europea.
In Italia la situazione non è migliore. Un dossier di Legambiente del 2015 aveva documentato «come il 42 per cento delle nostre spiagge siano colpite dal fenomeno. In Molise è soggetta a erosione il 91 per cento della costa. Il resto del litorale adriatico non se la passa meglio, mentre in Basilicata il mare si mangia il 78 per cento della battigia. La causa principale è il cemento, che ha ricoperto e trasformato oltre metà delle aree costiere italiane».
Non a caso il traffico di sabbia entra nel business dell’ecomafia. Le operazioni Spartacus negli anni Novanta e quella più recente Acheronte hanno scoperchiato un giro di affari legato alle escavazioni illegali di sabbia. «Se ne parla troppo poco, perché a torto lo si considera un fenomeno marginale, quando invece ha contribuito ad arricchire enormemente ‘ndrangheta, camorra e mafia, che proprio grazie al controllo della filiera del cemento hanno preso possesso del mercato edilizio in ampie zone del territorio italiano» sostiene Enrico Fontana, responsabile ambiente e legalità di Legambiente. «Se si pensa che ogni anno in Italia vengono realizzate circa 18 mila costruzioni abusive, si può capire quale entità ha raggiunto il fenomeno».
Il clan dei casalesi, che ha deturpato il litorale Domizio-Flegreo prosciugando di sabbia la pineta a ridosso delle spiagge, o quello delle ‘ndrine di Vibo Valentia sono solo alcuni degli esempi più eclatanti dei vasti interessi della mafia nel settore (circa 50 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia estratti all’anno). Ma a fianco di queste pratiche illegali, come spiega il responsabile acque del Wwf, il biologo Andrea Agapito Ludovici, anche il dragaggio dei fiumi per pulirne il letto avrebbe l’effetto di abbassare le sponde. «È una follia, perché le aziende incaricate della pulizia dei fiumi lo fanno in cambio del materiale che portano via, soprattutto sabbia e legna che possono vendere, mentre lasciano la ramaglia che non rende nulla. I controlli dell’Ufficio tecnico del Genio civile sono praticamente assenti e quindi è assai probabile che venga portato via molto più materiale di quello previsto, danneggiando l’ecosistema del fiume. Senza contare la sua corresponsabilità nei recenti crolli di alcuni viadotti».
La sabbia dragata dal fondo dei fiumi, inoltre, dal momento che non arriva al mare aumenta l’erosione delle spiagge. La Regione Emilia-Romagna, per esempio, paga milioni di euro l’anno per il ripascimento delle coste, che sono sempre più sottili: per preservarle si è costretti a prendere la sabbia al largo e poi pomparla a riva. Dati Ispra dicono che negli ultimi 50 anni in Italia la riva costiera è arretrata in media di 25 metri. E secondo il geologo marino Diego Paltrinieri, tutto ciò ha determinato per il nostro Paese, fra costi e mancati guadagni, una spesa di 4,5 miliardi di euro.
Quelle 150 tonnellate l’anno trafugate dalle coste sarde, insomma, sono solo la punta di un iceberg ben più profondo. La Regione ha provato adesso a mettere un freno, prevedendo per i trasgressori sanzioni fino a 3 mila euro. Ma è improbabile che i «ladri di sabbia» si faranno scoraggiare da una semplice multa.