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La pubblicità online è a una svolta

La pubblicità online è a una svolta

Il colosso californiano Alphabet è al centro di una serie di indagini per posizione dominante della sua controllata Google sul mercato della pubblicità online. E negli Stati Uniti si inizia a parlare persino di un suo «spezzatino».


Che cos’hanno in comune banche come Intesa Sanpaolo e Unicredit con le società di telecomunicazioni Vodafone e Wind3? O Coca Cola con Costa crociere? O ancora gli editori Mondadori e Sky con la Pirelli e l’Enel? Sono tutti membri di un’alleanza di imprese che fanno pubblicità su internet e hanno deciso di dichiarare guerra a un avversario molto potente. L’alleanza si chiama Iab Italia, emanazione dell’Interactive advertising bureau mondiale presente in 36 Paesi. Il «nemico» è Google, denunciato all’Antitrust per abuso di posizione dominante. In seguito alla denuncia, l’autorità garante della concorrenza, presieduta da Roberto Rustichelli, ha aperto a fine ottobre un’istruttoria per indagare sull’operato del colosso californiano sul mercato italiano della pubblicità online.

Questa è solo l’ultima di una raffica di iniziative lanciate a livello globale contro Google, accusata di aver creato un monopolio, di non rispettare la privacy degli utenti, di discriminare i concorrenti. La più pericolosa per il gruppo californiano è stata sferrata negli Stati Uniti: il mese scorso il Dipartimento di giustizia ha avviato un procedimento nei confronti di Google per abuso di posizione dominante dopo aver esaminato il rapporto del Congresso che incolpa le big tech di monopolio e avanza proposte dirompenti, incluso un loro possibile «spezzatino». In particolare il governo Usa sostiene che Google manterrebbe illegalmente il monopolio sui motori di ricerca attraverso accordi e contratti commerciali che escluderebbero la concorrenza. Si tratta del più grande procedimento antitrust dal 1990 quando il governo intervenne contro Microsoft.

Anche l’Europa è partita all’attacco: nel 2019 la Commissione ha inflitto a Google una multa da 1,49 miliardi di euro per violazione delle norme antitrust: Google avrebbe abusato della propria posizione dominante sul mercato imponendo una serie di clausole restrittive nei contratti con siti web di terzi che hanno impedito ai competitor di inserire su tali siti le proprie pubblicità collegate alle ricerche. Poi, in giugno, il Parlamento europeo ha approvato un emendamento in cui si chiede alla Commissione di impedire alle grandi piattaforme di proporre ai loro utenti annunci personalizzati, basati sui gusti di ciascuno. Mentre in Francia la Commission nationale de l’informatique et des libertés ha inflitto un’ammenda a Google di 57 milioni per non aver fornito informazioni chiare agli utenti Android su come stava elaborando i loro dati.

L’ultima iniziativa dell’Antitrust italiana alza un velo sul complesso mondo della pubblicità online e in particolare del display advertising. In Italia il mercato della pubblicità online, in continuo sviluppo, vale 3,3 miliardi di euro (dati del Politecnico di Milano) e la quota di Google è stimata intorno al 70 per cento. La fetta del display advertising muove da sola oltre 1,2 miliardi. Come spiega il presidente di Iab Italia e managing partner dell’agenzia di pubblicità Mc Saatchi Carlo Noseda, «Google sa tanto di noi grazie ai cookie inseriti insieme a banner, pop-up o altre forme di messaggi pubblicitari visibili durante la consultazione di un sito web, ma anche grazie a molti altri strumenti: dal sistema operativo mobile Android, installato sulla gran parte degli smartphone usati in Italia, al browser Chrome che detiene una quota di mercato sui pc di circa il 70 per cento, fino a Google Maps, Waze, Gmail e Youtube».

Quando entriamo per esempio nel sito di Panorama e accettiamo l’utilizzo dei famosi cookie, stiamo dicendo al mondo degli inserzionisti che un tizio di una certa età, con certi interessi e con una certa storia di ricerche online alle spalle sta navigando in quelle pagine. A quel punto un’asta istantanea assegna al miglior offerente uno spazio pubblicitario sul sito in modo che all’utente arrivi un messaggio su misura. Il meccanismo utilizza piattaforme software automatizzate che mettono in comunicazione acquirenti e venditori. Lato acquirenti si tratta delle Dsp (Demand side platform) e lato venditori delle Ssp (Supply side platform).

L’accusa di Iab a Google è di aver interrotto da maggio 2018 l’erogazione agli inserzionisti e agli altri operatori del mercato di una serie di informazioni-chiave sui suoi utenti e sugli utilizzatori di YouTube. Il risultato è che il colosso web ora sarebbe in grado di permettere alla Google marketing platform (la sua Dsp) e al Google a.d. manager (Ssp) di avere prestazioni, in termini di capacità di identificazione degli utenti che visualizzano inserzioni, non raggiungibili da altri operatori. In altre parole, «soffocare la concorrenza e limitare le scelte degli investitori agendo essenzialmente da monopolista grazie all’enorme mole di dati di cui dispone».

«La crescita della posizione dominante dei colossi della rete» aggiunge Noseda «ha creato una situazione non più sostenibile per le aziende che operato nel mercato della pubblicità online, media inclusi». Lo Iab lancia così un appello: «È urgente permettere a tutti gli operatori di giocare alla pari con chi può avanzare tecnologicamente grazie a risorse finanziarie sovente legate a un carico fiscale quasi inesistente».

Google si difende sostenendo che «i cambiamenti oggetto dell’indagine sono in parte misure per proteggere la privacy delle persone e rispondere ai requisiti del Gdpr (il Regolamento europeo sulla protezione dei dati). Continueremo a lavorare in modo costruttivo con le autorità italiane, in modo che tutti possano ottenere il massimo dall’uso di internet». Toccherà all’Antitrust verificare chi ha ragione tra Iab e Google.

Intanto quest’ultima prosegue con le sua iniziativa a favore degli editori: cinque anni fa ha avviato il Digital news innovation fund assegnando in totale 150 milioni di euro di cui 11,5 milioni in Italia. Google ha poi lanciato durante la pandemia da Covid il Journalism emergency relief fund che ha riservato a circa 280 case editrici italiane 1,7 milioni di dollari. Infine il gruppo americano ha stretto un accordo triennale con la Federazione degli editori (Fieg) per 16 milioni di euro per migliorare la presenza dei giornali sul web. «Briciole» ribatte Noseda «per un gigante che fattura a livello mondiale 161 miliardi di dollari di cui 134 in pubblicità». E che nel 2019 avrebbe pagato appena 5,7 milioni di tasse in Italia.

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