- PLASTICA – Il materiale più demonizzato per l’inquinamento che produce è tornato protagonista. Mascherine, guanti, tute protettive e divisori indispensabili per battere la pandemia riportano in auge il polipropilene. Mentre a giugno incombe anche la plastic tax.
- TRAFFICO IN QUARANTENA, ma non diminuiscono le emissioni nocive di particolato. I «colpevoli» vanno quindi cercati altrove. A cominciare dal riscaldamento di case e uffici.
«E mo’?» sorrideva col suo bel faccione dai televisori dell’Italia del boom Gino Bramieri. «E mo’, Moplen». Appunto. Sono passati 120 lustri, ma siamo ancora o di nuovo lì. Perché la plastica demonizzata, messa al bando nelle intenzioni dei nostri governanti per via fiscale si sta prendendo una «plastica rivincita». Impossibile gestire, ma anche sconfiggere il coronavirus senza quella sostanza «leggera e resistente, duttile e trasparente».
E senza la plastica usa e getta e senza quella più italiana di tutte: il Moplen o comunque il polipropilene. Fu Giulio Natta, imperiese di Porto Maurizio, Nobel per la chimica nel 1963, a inventare il Moplen. Il nome rimanda alla Montecatini ed è una sorta di condensato della storia felice e terribile della chimica italiana. Grazie a Natta si fanno le fiale che contengono i tamponi, i tubi e le membrane dei ventilatori polmonari, le visiere protettive, i caschi respiratori. Perfino le miracolose valvole stampate con le stampanti 3D nascono da fili di plastica. E se andremo al mare (?) protetti dai divisori trasparenti, e se ceneremo divisi da separé, tutto sarà sempre in plexiglass.
Tutto questo ha fatto sottacere per qualche tempo la demonizzazione del materiale più duttile, più a buon mercato – soprattutto ora col petrolio in picchiata – e più «trasparente» che l’uomo abbia mai potuto usare. Perché contro la plastica c’è un pregiudizio ecologista costruito partendo da una prospettiva sbagliata. Lo sostiene Carlo Stagnaro, direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni, come dire la casa del pensiero economico liberale, che ha scritto un breve saggio dal titolo La rivincita della plastica. Afferma Stagnaro: «La questione delle plastiche non sta nel loro utilizzo o nel ciclo produttivo – che anzi è meno impattante rispetto a molte alternative – ma nel fine vita. Riguarda la raccolta e la destinazione dei rifiuti di plastica. Per dare una dimensione: dei 380 milioni di tonnellate che produciamo annualmente, circa il 3 per cento finisce negli oceani. Di questi, il 60 per cento viene dall’Estremo Oriente, l’11 dall’Asia meridionale, il 3-4 dall’Europa e l’1 per cento dal Nordamerica».
Stagnaro è tranchant su una questione: «Nel 2020 avremo bisogno di plastica, e tanta. Per questo, il governo dovrebbe abbandonare la criminalizzazione di un materiale, a partire dalla plastic tax e, semmai, cercare di colpire i comportamenti sbagliati legati a raccolta, smaltimento e trasformazione. Il Covid-19 ci obbliga a ripensare ogni gesto e abitudine nella prospettiva dell’igiene. Di conseguenza, il packaging, specialmente degli alimentari, e i prodotti monouso, a partire da posate, guanti, piatti e bottiglie, diventano tasselli centrali della Fase 2». Eh già, perché per compiacere Greta Thunberg e i movimenti ecologisti l’Europa mette fuorilegge dal prossimo anno tutti i materiali monouso, e l’Italia ha fatto di più: ha messo la tassa sulla plastica. La cosiddetta plastic tax scatterà a luglio. Cinquanta centesimi al chilo su tutti i prodotti monouso. E si era partiti, con grande trionfalismo del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, da un euro al chilo. A far fare parziale marcia indietro al governo è stato il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini: nella sua regione si concentra circa la metà dell’industria della plastica in Italia e, a Mirandola, c’è il polo biomedicale più importante d’Europa. Lì si lavora tanta plastica: per fare arterie artificiali, macchinari per la dialisi e per la cardiochirurgia.
È vero che mangiamo microplastiche, ma è anche vero che in sala operatoria ci salva la plastica. E non è chirurgia estetica. Ma la fame di quattrini – anche se il gettito atteso è poco più di 150 milioni quest’anno e circa mezzo miliardo il prossimo – e la fama politically correct del governo giallorosso non tiene conto di questo. L’unico materiale sanitario escluso dalla tassa sono le siringhe monouso, che servono anche per drogarsi. Le provette dei tamponi, tante per dirne una, sono sotto la mannaia del fisco.
E pensare che l’Italia possiede primati economici e produttivi unici soprattutto nelle plastiche «pulite». Fu Raul Gardini – la sua morte pesa come un macigno sul ritardo industriale di questo Paese – aveva intuito che dall’agricoltura si potevano estrarre nuovi materiali. Gardini aveva in mente di far viaggiare le auto con l’etanolo e di costruire le macchine con le plastiche da granturco. Prima di lui ci aveva pensato nel 1910 Henry Ford che aveva creato la macchina di canapa alimentata a olio di canapa. I petrolieri gli fecero la guerra e della Hempy Body Car (si chiamava così l’utilitaria vegetale) non se ne fece più niente.
Che sia successo così anche a Gardini che a metà degli anni Ottanta presentò le plastiche da granturco? Erano i tempi della Montedison, evoluzione del Moplen. Dalla dissoluzione dell’avventura del «Pirata» qualcosa però si è salvato. È la Novamont che Catia Bastioli, nominata scienziata e inventore europeo dell’anno nel 2007 e nata professionalmente in quell’incubatore che era il team di chimici della Montedison, ha portato al successo. Produce il Mater-B, una plastica biodegradabile e compostabile a Terni, là dove è nato il Moplen: diventato famoso perché Matteo Renzi lo promosse con le buste della spesa, e siccome la Bastioli stava alla Leopolda ecco che la bioplastica fu inquinata dalla politica.
Ma è un successo italiano e complessivamente oggi il settore delle bioplastiche vale circa 10 miliardi di fatturato. Con una ricerca costante: uno degli ultimi brevetti consente di fare plastica dai cardi selvatici e tessuti dalle bucce d’arancia. Ma anche questa è un’eredità del passato; prima del Moplen gli italiani producevano la galatite: una plastica fatta con gli scarti del latte che fu anche al centro di uno scandalo «inventato» sul formaggio sintetico.
Complessivamente il Moplen e parenti in Italia occupano 150 mila addetti in 10 mila aziende, per un fatturato attorno ai 40 miliardi di euro. E ce la caviamo anche nel riciclo, secondi in Europa solo alla Germania: diamo nuova vita a metà degli imballaggi e circa il 18 per cento delle nuove plastiche è fatta dal riuso. Sottolinea ancora Stagnaro: «Per battere la plastica monouso in termini di impatto ambientale, un sacchetto di cotone organico dovrebbe essere riusato almeno 20 mila volte, uno di cotone convenzionale oltre 7 mila volte, uno di carta 43 volte. Esattamente ciò che, nell’epoca del Covid-19, non possiamo permetterci». Ora la parola passa a Roberto Gualtieri. Ci faccia sapere se intende ancora tassare i salvavita in plastica o se a luglio l’inutile plastic tax finirà nel cassetto.
Se fermare le auto non ferma lo smog

TRAFFICO IN QUARANTENA, ma non diminuiscono le emissioni nocive di particolato. I «colpevoli» vanno quindi cercati altrove. A cominciare dal riscaldamento di case e uffici.
di Guido Fontanelli
Tutti a casa, poche auto in giro, strade deserte e silenziose. Le misure di contenimento per combattere il coronavirus sono dolorose, ma almeno hanno eliminato quasi completamente le emissioni inquinanti dei mezzi di trasporto. E finalmente nelle nostre città si può respirare aria pulita. Ma è davvero così? Non proprio. Le prime indagini dimostrano infatti che bloccare il traffico anche per un lungo periodo non elimina le sostanze considerate più nocive per la nostra salute, le polveri sottili Pm10 e Pm 2,5. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente ogni anno questi inquinanti sono responsabili della morte prematura di oltre 400 mila persone nel continente, di cui 58 mila in Italia. Inoltre, indebolendo il sistema respiratorio, le polveri sottili potrebbero aver facilitato la diffusione del Covid-19 nella Pianura padana, una delle zone più inquinate d’Europa a causa dello scarso ricambio d’aria e dell’alta densità abitativa. Al secondo posto come pericolosità ci sono gli ossidi di azoto.
Con un crollo del traffico del 75 per cento e dei consumi di carburante dell’80 per cento ci si sarebbe aspettata una forte caduta di questi inquinanti. Invece, come dimostra lo studio condotto dall’Arpa Lombardia Analisi preliminare della qualità dell’aria durante l’emergenza Covid-19, le concentrazioni di Pm10 e Pm 2,5 sono diminuite di poco, mantenendosi su livelli simili a quelli del 2019. Certo, contano molto le condizioni meteo. Ma fa una certa impressione leggere che il 25 febbraio a Codogno, allora in piena zona rossa, ci sono «concentrazioni superiori a quelle delle stazioni circostanti, dove invece in quel momento non erano state ancora attuate limitazioni al traffico». Altro caso citato nell’analisi: «Il periodo dal 18 al 20 marzo è stato interessato da un incremento significativo del Pm10 che in alcune stazioni della rete di rilevamento, nonostante la riduzione dei flussi di traffico e di parte delle attività industriali, ha superato il valore limite di 50 microgrammi al metro cubo ed è cresciuto in gran parte della regione. Nelle giornate del 28 e del 29 marzo nella Pianura padana, in particolare nella porzione orientale, sono state osservate concentrazioni di Pm10 molto elevate» probabilmente di origine desertica e sabbiosa.
Situazione simile in Piemonte: a partire dal 9 marzo sia le polveri sottili sia gli ossidi di azoto sono leggermente saliti, per diminuire dall’11 al 15 marzo, quando gli inquinanti sono tornati a crescere fino al 18 marzo. Anche l’Agenzia ambientale della Campania ha analizzato i dati delle centraline situate nelle cinque città capoluogo tra il 25 febbraio e il 31 marzo rilevando un lieve calo di Pm10 e Pm 2,5. Altri sono i risultati per gli ossidi di azoto, emessi soprattutto dai motori diesel, la cui riduzione è stata molto più sensibile, intorno al 40-50 per cento.
La colpa allora è del riscaldamento di case e uffici che, secondo l’Ispra, produce il 38 per cento delle emissioni primarie e secondarie di Pm 2,5, mentre l’Agenzia europea per l’ambiente stima che il contributo del riscaldamento alle emissioni di Pm10 sia del 39 per cento (contro il 20 del trasporto). Una particolare responsabilità ricade su stufe a pellet e camini: uno studio condotto dall’Arpa Piemonte nel 2018 a Torino-Lingotto ha mostrato che il riscaldamento a biomassa legnosa provoca in quel quartiere ben il 44 per cento delle concentrazioni di Pm10.
Il bello è che, come già segnalato da Luca Sciortino su Panorama del 4 marzo 2020, l’Italia incentiva l’uso di una fonte così inquinante: chi acquista una stufa a pellet può usufruire infatti di un’agevolazione fiscale che vale il 50 o il 65 per cento delle spese sostenute non solo per l’acquisto ma anche per i lavori di installazione. «È assurdo, queste stufe hanno emissioni da 50 a 150 volte più elevate di una caldaia a gas» commenta Andrea Arzà, amministratore delegato di Liquigas e presidente di Assogasliquidi. «È come se si incentivasse l’acquisto di auto precedenti all’Euro 0». L’equivoco sta nel considerare il legno una risorsa rinnovabile: peccato che le foreste sono magari in Germania o Canada e il fumo lo respiriamo in Italia. «Sarà un caso se l’Italia è il primo mercato europeo delle biomasse legnose per uso domestico? Forse perché altrove non sono incentivate?» chiede polemicamente Arzà. Un altro paradosso riguarda l’acquisto di immobili. In teoria dovrebbe essere incentivato l’acquisto di case nuove, più efficienti da un punto di vista energetico. Di fatto si pagano meno tasse se si compra un’immobile vecchio e più inquinante.
Giusto spingere sull’elettrico e sulla riduzione del traffico, ma forse sarebbe il caso che, finita l’emergenza, sindaci, governo e Commissione europea inizino ad affrontare il tema dell’inquinamento in modo maggiormente scientifico, smettendola di criminalizzare solo l’auto. In gioco c’è il futuro di un’industria che in Italia contribuisce al 5,6 per cento del Pil: il settore sta subendo un tracrollo delle vendite (in marzo dell’85 per cento in Italia e del 51 in Europa) ed è obbligato a rispettare regole sempre più stringenti sulle emissioni, mentre la lotta al diesel spinge i consumatori verso i motori a benzina, che consumano di più.
Come spiega Marisa Saglietto, responsabile ufficio studi dell’Anfia, l’associazione nazionale filiera automobilistica, «contribuiscono alla formazione delle polveri sottili l’usura di freni, pneumatici e asfalto. Questa sorgente è dunque indipendente dal carburante usato dai veicoli. I motori di nuova generazione poi producono emissioni infinitesimali di inquinanti. Per raggiungere gli obiettivi di qualità dell’aria posti dall’Unione europea, non ci si può limitare a intervenire su un singolo aspetto (traffico veicolare), ma sviluppare un approccio integrato che tenga in considerazione tutti gli aspetti e i settori (industriale, combustione da biomassa, allevamenti, agricoltura, residenziale)».
«Il blocco del traffico per ridurre l’inquinamento è una presa in giro» aggiunge Arzà. «Occorre invece aiutare i cittadini a sostituire l’auto con una più moderna. E poiché molti non possono farlo perché non hanno i mezzi, abbiamo proposto al governo di offrire un incentivo a chi monta un impianto a gas sulla propria vettura. Una misura che consentirebbe l’abbattimento di polveri sottili e di ossidi di azoto e che, da un punto di vista fiscale, verrebbe compensata dal gettito dell’Iva. Ma la misura non è passata».