Per la prima volta nella scienza, un farmaco ideato dall’intelligenza artificiale entrerà nei test clinici. Del resto, l’avvento dei supercomputer sta già rivoluzionando il lavoro di medici e radiologi. In meglio. Anche se con qualche errore e inediti dilemmi etici.
Ci ha pensato su 12 mesi. Se vi sembra tanto, sappiate che i ricercatori in carne e ossa in genere ci impiegano una decina di anni. Lui, dopo aver valutato decine di milioni di potenziali molecole, ha fermato i suoi «neuroni» digitali su un composto chimico chiamato DSP-1181: un potente agonista della serotonina, destinato a chi soffre di ansia e disturbo ossessivo-compulsivo.
«Lui» è un algoritmo. E, per la prima volta nella storia della medicina, un farmaco totalmente ideato dall’intelligenza artificiale sta per entrare nei test clinici sull’uomo. Non sappiamo se, per chi soffre di nevrosi, l’idea di ingoiare una pillola messa a punto da una mente non umana sarà rassicurante o allarmante, di fatto è la strada intrapresa dai laboratori di tutto il mondo. Il farmaco creato dalla A.I. (Artificial intelligence) della start-up Exscienta di Oxford insieme alla giapponese Sumitomo Dainippon Pharma, è il primo di una serie destinata ad allungarsi. «Entro la fine del decennio» profetizza Andrew Hopkins, a.d. di Exscienta «tutti i nuovi farmaci potrebbero essere ideati dall’intelligenza artificiale».
Il bacino potenziale è immenso. E Big Pharma lo sa benissimo: se è vero che il 90% delle molecole che potrebbero arrivare sul mercato falliscono ancor prima dei test clinici, polverizzando miliardi di dollari di investimenti, il «tocco magico» della A.I. promette di essere l’arma vincente: tempi di analisi frantumati, costi ridotti fino all’80%.
I cervelloni sintetici vengono «nutriti» di dati prelevati dai tessuti dei pazienti (con varie malattie a differenti stadi), da informazioni provenienti dal mondo della genomica, proteomica, metabolomica, lipidomica… Sì, hanno questi nomi, in sintesi si tratta di geni, proteine, sostanze del metabolismo, acidi grassi cellulari. Dalle «meningi» del software escono così potenziali bersagli molecolari, mutazioni genetiche che indicano come modulare le terapie, come la malattia potrà evolvere o, ancora, come quel paziente reagirà ai farmaci. Un formidabile passo avanti verso la medicina di precisione, o personalizzata.
Dal settimanale Nature, che alla A.I. ha dedicato un inserto speciale, scopriamo che Berg Pharma (fondata dal miliardario della Silicon Valley Carl Berg) si è alleata con AstraZeneca per trovare, con questo sistema, cure per il Parkison, con Sanofi Aventis per mettere a punto vaccini anti-influenzali universali, con la Cleveland Clinic per il tumore alla prostata. E aziende come Pfizer, Novartis e GSK hanno stretto forti alleanze con i big dell’informatica.
Anche in Italia c’è parecchio movimento, su questo fronte. «Insieme a Novartis, in Irlanda, UK e Svizzera, cerchiamo nuovi farmaci per varie patologie» dice Fabio Moioli, direttore Divisione Enteprise Services di Microsoft Italia (nell’ambito del progetto, più ampio, chiamato A.I. for Health). «Collaboriamo con ricercatori e organizzazioni per affrontare sfide come la retinopatia diabetica e la morte in culla. Lavoriamo anche con l’Università di Cambridge, nella genomica. E, un passo oltre nel futuro, puntiamo sui computer quantistici per migliorare l’imaging e le risonanze magnetiche nei tumori».
Nel mirino dell’intelligenza artificiale non poteva mancare la star di questi tempi, il coronavirus asiatico. Tra i progetti di ricerca della Commissione europea contro il Covid-19 (bando Horizon 2020, 10 milioni di euro) c’è Exscalate 4CoV: un consorzio pubblico-privato italiano (Dompé farmaceutici) che raccoglie vari centri e, grazie a un sistema di supercalcolo che macina 500 miliardi di molecole al ritmo incredibile di 150 milioni di miliardi di calcolo al secondo, punta a scoprire «la cura» contro la pandemia. Ci riusciranno in tempo? Non lo sappiamo, sperarlo però è lecito.
La ricerca di farmaci innovativi (e non le solite molecole me-too – ovvero «copie» di altre già esistenti – che da anni inondano il mercato) è solo uno dei settori che l’intelligenza artificiale sta rivoluzionando. Pensate alle diagnosi: quante volte un medico non vede che quell’ombra impercettibile è in realtà un cancro pronto a fare guai? Online, sul sito della Northwestern University, c’è l’immagine di una mammografia che dice tutto: una minuscola macchia, il tumore, individuata dal software ma sfuggita all’occhio umano. L’esperimento, condotto in Gran Bretagna con DeepMind e Google Health su un numero elevato di mammografie, mostra che la A.I. riesce a ridurre del 9,4% sia i falsi negativi (il tumore c’è, ma non viene visto) sia i falsi positivi (una diagnosi errata di malattia).
Un giorno i software sostituiranno i radiologi nella diagnosi di cancro al seno, al polmone, al cervello? «L’intelligenza artificiale in medicina è una strada da cui non c’è ritorno, ed è una cosa positiva se gestita nel modo corretto» risponde Enrico Cassano, oncologo e radiologo allo Ieo di Milano dove dirige la Divisione di Radiologia senologica (esclude, peraltro, che la A.I. possa mai rimpiazzare i radiologi in carne e ossa). «Se parliamo di mammografia, noi radiologici sappiamo che gli ostacoli nel vedere un tumore sono legati alla struttura densa della ghiandola mammaria, specialmente nelle donne giovani. In questi casi la capacità di individuare un cancro può scendere fino al 60%. L’altro limite, negli screening di massa, è la necessità di richiamare alcune donne per un approfondimento diagnostico di «secondo livello». Ma in una buona percentuale di casi si tratta di un falso positivo. Ecco, ci aspettiamo che la A.I. ci aiuti a individuare un maggior numero di patologie riducendo però anche i falsi allarmi».
Allo Ieo, spiega Cassano, sono partiti progetti di ricerca in cui l’intelligenza artificiale è applicata alla risonanza magnetica e alla mammografia. «Con tre livelli di apprendimento: prima insegniamo alla macchina a riconoscere i tumori in base alla nostra esperienza e alla casistica di molti centri; al secondo livello, il machine learning, impara da sé; e al terzo, il deep learning, la A.I. utilizza reti neurali, enormi database interconnessi, per migliorare sempre più le proprie prestazioni».
La diagnosi precoce del cancro al seno fa parte anche dei progetti di Microsoft. Moioli fa qualche esempio: «Con gli Istituti Clinici Maugeri di Pavia, così come con l’Istituto Oncologico Veneto, stiamo usando i nostri sistemi di intelligenza artificiale per migliorare l’efficacia delle mammografie. Con altri centri poi, nell’oncologia pediatrica, collaboriamo con modelli di A.I. per l’analisi del neuroblastoma (uno dei più aggressivi tumori cerebrali, ndr)».
Inoltre, dal momento che per formare un radiologo ci vuole tempo ed esperienza, e in molti ospedali quelli che ci sono non bastano a fronteggiare tutte le esigenze, il cervellone che legge le lastre potrebbe portare avanti programmi di screening, scaricando un bel po’ di lavoro dalle spalle dei «colleghi umani».
A New York, al Mount Sinai Health System, il neurochirurgo Eric Oermann dirige il consorzio AISINAI, network di intelligenza artificiale applicata all’imaging cerebrale. L’obiettivo è identificare subito i segni di un’ischemia. Nel caso di un ictus, una diagnosi tempestiva salva le capacità cognitive. Ma valutare una scansione al cervello, dopo che l’immagine è stata catturata, richiede in media 87 minuti. Peccato che nel giro di un’ora, secondo i neurologi, un ictus può far perdere 120 milioni di neuroni, 830 miliardi di connessioni sinaptiche e 714 chilometri di fibre nervose. L’algoritmo «addestrato» dal team di Oermann potrebbe identificare i casi più urgenti e segnalarli ai neurologi.
È dunque il trionfo della tecnologia sulla fallibile mente umana? Ancora no, ammesso poi che sia una gara. Lo è soltanto nella misura in cui la si racconta così. Proviamo, per gioco, e vediamo dove ci porta. Qualche anno fa il supercomputer Watson della Ibm ebbe il suo momento di gloria trovando in 10 minuti (grazie a un database di 23 milioni di articoli scientifici) una terapia per un tumore cerebrale, mentre un team di esperti impiegò 160 ore. Uno a zero per Watson. Nel 2018, però, un’inchiesta del magazine online Stat ne ridimensionò le prestazioni, rivelando pure qualche cantonata: per esempio, aver prescritto a un paziente con cancro ai polmoni che soffriva di emorragie un medicinale che avrebbe potuto danneggiarlo.
Ancora. In un ospedale americano in cui si usava la A.I. per stabilire chi doveva essere curato prima in medicina d’urgenza, l’algoritmo suggeriva una cosa singolare: che la priorità più bassa l’avevano i pazienti che si recavano al pronto soccorso con la polmonite ma che, in passato, avevano avuto un infarto. Secondo le sue deduzioni, avevano un rischio di mortalità inferiore agli altri, quindi non c’era poi tutta questa fretta di curarli.
Possibile? Certo. «L’algoritmo non comprende il rapporto causa-effetto, in quel caso aveva trovato una correlazione sbagliata perché ragionava in base alle statistiche» rivela Moioli. «E le statistiche dicevano che chi negli anni precedenti aveva avuto un infarto, se si sentiva male si preoccupava di più e andava subito al pronto soccorso, dove veniva curato prima, così le sue chance di superare la polmonite aumentavano». Ma il motivo era questo, non che l’attacco di cuore rendeva meno grave la polmonite, conclusione alquanto strampalata (oltre che insensata).
Sbagliando si impara, come si dice, e vale anche per chi umano non è. A proposito, in caso di errore, ai tempi della A.I., di chi sarà la colpa? Se un sistema di intelligenza artificiale porta un medico a formulare una diagnosi sbagliata o a prescrivere una terapia scorretta, inefficace o rischiosa, la responsabilità finale sarà del professionista (che magari dirà che in fondo non era d’accordo con il cervellone), dell’ospedale che ha adottato quel particolare algoritmo, dell’azienda che lo ideato e messo a punto? Troppo presto per stabilirlo, per ora. Ma il futuro è giusto dietro l’angolo.
Così l’intelligenza artificiale potenzierà le difese del nostro organismo
È la nostra prima linea di difesa, e la migliore che abbiamo. Combatte virus, batteri, parassiti, cellule del nostro stesso organismo che, prese da manie di grandezza, si trasformano in cellule tumorali fuori controllo. Non sempre è efficace, certo. Talvolta il sistema immunitario non riesce ad averla vinta contro i «nemici» e, a tutt’oggi, medici e scienziati non sanno perchè. Come mai un malato di cancro ce la fa e un altro soccombe? Perché su un paziente l’immunoterapia (una delle più promettenti armi in ambito oncologico) funziona e su un altro fallisce? Perché il sistema immunitario non riesce a prevenire una malattia devastante come l’Alzheimer?
Domande fondamentali, finora senza risposta. Capire in tutta la sua complessità quella meravigliosa macchina che è il sistema immunitario è delle maggiori sfide della medicina. Le difese del nostro organismo sono un universo popolato da un’infinità di cellule con nomi, compiti, interconnessioni incredibilmente intricate. È un sistema miliardi di volte più complesso del genoma umano, la cui mappatura (nel 2000) segnò una svolta storica. Sarà mai possibile mappare, in modo analogo, il sistema immunitario così da comprenderne meglio il funzionamento?
L’impresa, improba fino a pochi anni fa, è ora possibile grazie all’avvento dell’intelligenza artificiale. È l’obiettivo della partnership tra Microsoft e l’azienda di Seattle Adaptive Biotechnologies: decodificare il sistema immunitario per rilevare, attraverso un semplice esame del sangue, un’ampia gamma di malattie, infezioni, disturbi autoimmuni e tumori fin dal primo stadio. Come si farà? Per capirlo, facciamo un passo indietro: il sistema immunitario «adattativo», ossia quello che impara a combattere ogni infezione che ci colpisce (l’altro è quello innato) è formato, semplificando molto, da due tipi di «soldati»: i linfociti T e i linfociti B. Ogni linfocita T ha, sulla sua superficie, un recettore che mira e colpisce uno specifico bersaglio, chiamato antigene. Un virus o un batterio, per esempio, rappresentano degli antigeni.
L’idea alla base dello sforzo Microsoft/ Adaptive Biotechnologies è ottenere, grazie al machine learning dell’intelligenza artificiale, una mappa di tutti i recettori dei linfociti T e dei loro antigeni, ossia i «nemici» che, negli anni, hanno incontrato e combattuto. In altre parole, la storia del sistema immunitario di ogni persona racchiusa in una goccia di sangue, analizzata da sistemi di calcolo ultrapotenti. Le battaglie passate, ma anche la situazione attuale: il sequenziamento del sistema immunitario potrebbe rivelare quali malattie, o entità estranee, l’organismo sta affrontando e su cosa sta allenando i muscoli, per così dire.
Questa mappa universale dei recettori dei linfociti T e degli antigeni dovrebbe permettere diagnosi più accurate e tempestive a partire da un semplice prelievo (accessibile quindi anche in paesi in via di sviluppo). Decodificare il sistema immunitario sarà, questa almeno è la grande promessa, un formidabile passo avanti per curarci meglio e, soprattutto, per evitare di ammalarci.
Daniela Mattalia