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Rieducazione canadese

Rieducazione canadese

Scuole religiose dove si cancellava l’identità delle popolazioni indigene e dove si stupravano e si sterilizzavano giovani native. Mentre erano centinaia i morti non segnalati. Nel Paese che si professa multietnico emergono ora i tragici episodi di «assimilazione» alla cultura dominante. Per i quali Papa Francesco chiederà scusa.


«Lasciami in pace, e io lascio in pace te». Harvey ha 11 anni, è solo, appoggiato al muro esterno sul retro della sua scuola, vicino al grande albero. Chiama Dio per implorarlo di far smettere quel prete che non lo lascia stare. Poi corre sulla montagna vicina e grida verso la riserva dove vivono i genitori: «Venitemi a prendere!!!». In due anni Harvey da quel prete subirà 17 stupri.

Oggi è a capo della comunità nativa di Upper Nicola, nella regione canadese della British Columbia, un’infilata di colline dolcissime e fiumi sorvegliati a ogni curva da un’aquila che scruta attenta, volando in circolo. La Kamloops indian residential school, che Harvey McLeod ha frequentato dal 1966 al ’68, è a un’ora di macchina da lì, ancora intatta, i tre piani di mattoni rossi, il grande prato a ridosso della riva del fiume. Non è facile rientrare dell’edificio che gli ha cambiato la vita, rivedere il bagno dei ragazzi, il rifugio sicuro dove poteva piangere in pace, e posare di nuovo le mani su quei lavatoi, gli stessi di allora, dove cercava di lavare via le violenze subite.

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La Kamloops indian residentialschool, nella British Columbia. (Raffaele Manco)
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Fred Kelly, anziano degli Anishinaabe. (Raffaele Manco)
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Harvey McLeod ha frequentato la Kamloops indian residential school. (Raffaele Manco)
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1 aprile 2022: le tre delegazioni degli indigeni del Canada -First Nations, Metis e Inuit- festeggiano in Piazza San Pietro dopo aver ricevuto le scuse ufficiali di Papa Francesco. (Raffaele Manco)
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L’area di Kananaskis ai piedi delle Montagne Rocciose canadesi. Qui vivono le comunità native (Raffaele Manco)
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Lorraine Daniels, ex alunnadella Scuola residenziale di Sandy Bay, Saskatchewan. (Raffaele Manco)

Quella di Harvey è solo una delle storie delle cosiddette Residential school, le scuole che il governo canadese istituì a fine Ottocento – le ultime sono state chiuse negli anni Novanta – con l’obiettivo dichiarato di «uccidere l’indiano dentro al bambino». Centoquarantuno scuole ufficialmente riconosciute, oltre 100 anni di attività, più di 150 mila studenti. Furono date in gestione a diversi ordini religiosi, soprattutto cattolici, e intere generazioni di bambini nativi – First Nations, Metis e Inuit i 3 gruppi in cui la costituzione canadese suddivide gli abitatori originari del Paese – furono prelevati dalle loro famiglie, spesso sotto il ricatto di trattenere le razioni di cibo, per essere rieducati al costume europeo.

Furono spogliati della loro cultura, della loro lingua, dei loro vestiti. In moltissimi subirono violenze, abusi e stupri, molti cercarono di scappare e ancora di più, svariate migliaia, non fecero mai ritorno a casa. Una storia su cui il Canada ha aperto gli occhi a fine maggio 2021, quando proprio a Kamloops sono state rinvenute nel terreno accanto alla scuola 215 tombe anonime, presumibilmente di bambini. Le indagini sono ancora in corso e le salme dovrebbero essere esumate il prossimo autunno, mentre le ricerche nei terreni delle ex scuole continuano a rivelare aree di sepoltura mai segnalate in varie province del Paese.

Nel 2006 l’Indian residential school settlement agreement, il più grande accordo di «class action» nella storia del Canada, aveva riconosciuto i danni inflitti nelle scuole residenziali e stabilito risarcimenti per un totale di 1,9 miliardi di dollari, destinati a tutti gli ex studenti. Per tanti però, la strada delle riparazioni è più faticosa del previsto, perché per dimostrare le violenze subite servono documenti che gli ordini religiosi fanno molta fatica a tirare fuori dai loro archivi. Oltre al fatto che sono ancora pochi i responsabili che hanno affrontato un vero processo. Tra fine marzo e aprile di quest’anno una delegazione di nativi è stata ricevuta da Papa Francesco in Vaticano. E durante l’udienza finale ha potuto ascoltare quello che in tanti aspettavano da decenni: le scuse ufficiali della Chiesa, ora attese anche in terra canadese, visto che il papa arriverà nel Paese dal 24 al 30 luglio.

Per i sopravvissuti come Harvey, la vita dopo le scuole è stata soltanto in salita: l’elaborazione del dolore, la perdita dell’identità, la dipendenza da alcol e droghe, l’incapacità di creare relazioni sane, di fare da genitori ai propri figli. Li chiamano «traumi intergenerazionali»: le Residential school e le pratiche di assimilazione messe in atto a danno dei nativi hanno provocato ferite che continuano a sanguinare. Lo si vede bene a Winnipeg, la città canadese con la più alta percentuale di popolazione indigena urbana. Siamo nel sud della regione di Manitoba, dove per ore e ore si vedono solo sconfinate praterie, quelle che d’estate regalano il grano per la famosa farina, e treni lenti e infiniti che scambiano le merci tra l’est e l’ovest del Paese. I nativi delle riserve di queste zone, dove le possibilità di lavoro scarseggiano, sono venuti ad abitare in città, ma vivono in periferia, nell’indigenza. Fanno registrare tassi di suicidi, disoccupazione, malattie, tossicodipendenza e alcolismo molto più alti della popolazione bianca della città.

«Ci sono famiglie che sono passate attraverso generazioni di scuole residenziali. È quel tipo di trauma a causare le varie dipendenze e tutto il resto» dice Kevin Walker, ex alcolista e tossicodipendente di origine Metis: oggi guida la Bear clan patrol, una pattuglia composta da nativi che ogni giorno cammina per le strade di North End, uno dei quartieri più poveri della città, dove per la maggior parte dell’anno uno strato di neve copre tutto e spesso le temperature, d’inverno anche sotto i meno 40°C, si mangiano le dita di mani e piedi di chi è costretto a vivere fuori. Il simbolo del clan è l’orso, l’animale-guida nella cultura dei nativi, e qualsiasi siano le condizioni meteo Kevin e i suoi escono a portare panini e vestiti caldi alla gente della comunità, l’80 per cento delle persone che assistono.

Aiutano anche la polizia di Winnipeg nella ricerca delle persone, spesso donne e spesso native, che scompaiono ogni giorno. Una crisi nazionale su cui nel 2016 il governo ha aperto finalmente un’inchiesta. È stato accertato così che nell’arco di 30 anni più di mille native sono state uccise, e dal 2001 al 2015 il tasso di omicidi è stato sei volte superiore a quello delle altre donne. D’altronde le native sono vittime due, tre volte. «È un genocidio» ha denunciato la parlamentare Niki Ashton nel novembre 2018 quando, rivolta al Primo ministro Trudeau in Parlamento, ha parlato di un altro dramma nascosto: le sterilizzazioni forzate. Un’espressione che suona assurda nel Canada del XXI secolo, eppure sono tante le native che, arrivate in ospedale per partorire, tornano a casa con le tube legate. Morningstar Mercredi ha 57 anni, è cresciuta e vive a Edmonton, in Alberta. Tra i suoi tatuaggi, sulla spalla sinistra porta l’orma di un orso, lo spirito guerriero con cui è sopravvissuta e che oggi vive nel suo sguardo dolce e deciso, nella voce vibrante. Morningstar, che porta con sé un nome luminoso, ha invece una storia di battaglie difficili.

Rimasta incinta a 13 anni dopo uno stupro, decide di tenere il bambino, nonostante il parere negativo della famiglia. Al settimo mese di gravidanza però cade e, preoccupata per il nascituro, si affretta in un ospedale della città di Saskatoon dove la sedano subito. Da quel momento, non ricorda più nulla. Quando si sveglia non è più incinta e nessuno le dirà mai cosa è successo al bambino. Quando, passati i 30 anni, vuole un altro figlio attraverso la fecondazione in vitro, Morningstar va da un ginecologo che durante la visita scoppia a piangere davanti a lei: «Non ho mai visto una cosa simile in vita mia. Lei è stata macellata». Morningstar non ha più la tuba sinistra e l’ovaio corrispondente. Oggi, con un centinaio di donne, sta facendo causa al sistema sanitario provinciale per aver subìto sterilizzazioni forzate.

Sebbene la storia di Morningstar risalga a più di 40 anni fa, un rapporto della Commissione per i diritti umani del Senato ha rilevato che tuttora i medici forzano le native a scegliere la sterilizzazione, estorcendo in vari modi il loro consenso: durante il travaglio, minacciandole di affidare i figli ai servizi sociali o fornendo moduli in inglese, che spesso non è la loro prima lingua. L’ultima della serie di atrocità messe in atto per assimilare la popolazione indigena, di cui si parla ancora troppo poco e con cui il Canada, Paese dalla reputazione di accoglienza e politiche sociali diffuse, non ha fatto i conti fino in fondo.

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