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I mattatoi tedeschi e l’export del coronavirus

I mattatoi tedeschi e l’export del coronavirus

Sette macelli della Germania sono diventati incubatori dell’epidemia. Con gli operai, che lavorano in condizioni di promiscuità inaccettabili. Ma l’Efsa, l’Agenzia europea di controllo, non dice nulla. Anzi, c’è un attacco alla filiera dell’allevamento italiano, troppo «virtuoso». Perché non corrisponde ai criteri industriali voluti dalla Ue.


È un macello il coronavirus. I mattatoi di mezzo mondo si sono trasformati in incubatori della pandemia. Anche in Italia la situazione è preoccupante, anche se a Viadana (Mantova), appena sopra il confine con la Lombardia, 122 persone sono rimaste contagiate nei focolai scoppiati in cinque fra salumifici, macelli e aziende ovicole della zona. I casi italiani non sono però, al momento, paragonabili a ciò che succede nel resto del mondo, in Germania in particolare.

Intanto in Cina un altro virus, presente nei maiali, potrebbe scatenare una nuova pandemia. È una variante dell’influenza suina: non si sa se pur attaccando l’uomo (ci sono già dei contagiati) possa provocare un contagio interumano. L’allarme però è serio. In Cina ci sono mezzo miliardo di maiali e decine di migliaia di uomini che li allevano e li macellano. Pechino – che già aveva sterminato milioni di capi infettati dalla peste suina – è il primo importatore di questa carne. La vogliono fresca (meglio, congelata) e a bassissimo prezzo. A fornirla sono i macelli tedeschi, quelli dove il coronavirus ha trovato il suo brodo di coltura.

La spia rossa si è accesa a Gütersloh, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, dove la Tönnies, che fattura 6,9 miliardi di euro, concentra 7.000 operai per macellare milioni di capi. Tra i dipendenti, più di 1.500 si sono contagiati e l’area è stata messa in quarantena fino al 7 luglio.

Soltanto quando la Bbc ha iniziato a filmare tra i capannoni, il governo tedesco ha cercato di far ricadere la colpa su Clemens Tönnies, il padrone della macelleria. La verità è un’altra. Quei mattatoi sono tutti «catene di smontaggio» degli animali dove lavorano gli stagionali che vengono da Romania, Bulgaria, Polonia, in condizioni disumane.

Che il sistema di produzione tedesco sia questo, è fuor di discussione. Tant’è che il governo si è deciso a imporre (ma solo dal 2021, poi si vedrà) il divieto del subappalto e multe di 30.000 euro per chi viola le norme sul lavoro. Ma è come chiudere la stalla a buoi già ammazzati; senza gli «schiavi» delle carcasse, addio export in Cina. Su 90.000 addetti alla macellazione, oltre il 60% è reclutato con questo caporalato legale. Se i tedeschi non facessero così non potrebbero reggere la concorrenza di Stati Uniti, Canada, Brasile e di altri Stati europei come Irlanda, Spagna, Olanda. Tutti Paesi dove i mattatoi, non a caso, sono diventati acceleratori di contagio.

Negli Usa ci sono stati focolai in 180 impianti, eppure la Tyson ha dato 500 dollari di bonus a chi continuava a lavorare i polli. In Canada la Cargill ha avuto oltre mille infettati, in Spagna Litera Meat ha dovuto chiudere gli impianti, in Brasile il tasso di contagiosità tra chi macella supera il 16%. Ma più clamoroso è il caso della Germania che predica bene e razzola malissimo, facendo concorrenza sleale. Parlano le cifre: in 10 anni l’Italia ha perso il 16% della produzione di carne (siamo fermi a 262.000 tonnellate), la Spagna ha aumentato del 28% (è a 640.000 tonnellate) e la Germania è cresciuta del 17% (690.000 tonnellate), con un boom del 24% per quanto riguarda i maiali. Tutto a danno del nostro Paese, invaso nelle catene di discount da carne tedesca.

Lo sintetizza Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia: «L’industria delle carni tedesche non ha niente a che fare con quella italiana. La diffusione del Covid in quegli impianti è legata al fatto che da sempre in Germania usano cooperative dell’Est Europa che si spostano da un macello all’altro in condizioni di lavoro e di promiscuità in Italia assolutamente non consentiti. Nelle nostre aziende abbiamo controlli più seri e frequenti e differenti standard lavorativi».

In Italia sono attivi 2.000 macelli, come in Germania, e quelli grandi sono un 10% in entrambi i Paesi. Da noi lavorano 6.000 veterinari contro i meno di 2.000 in Germania, si fanno 40.000 ispezioni all’anno e in Germania non si arriva a 10.000. Come dimostrano i casi di Viadana, al primissimo insorgere di un problema in Italia si interviene e la situazione è sotto controllo. Semmai c’è da domandarsi se per l’Efsa (l’Autorità di controllo europea sull’agroalimentare che ha sede a Parma) non valga quello che si dice per l’Oms: che è sensibile ai potenti. Sui mattatoi della Germania l’ente diretto da Bernhard Url, incidentalmente austriaco e veterinario, non ha detto una parola. La Ceo (ong che si occupa di agroalimentare) ha accusato l’Efsa di avere il 46% dei suoi consulenti al soldo dell’industria. Accusa che a Parma respingono.

Il caso Covid è una straordinaria opportunità per chi – soprattutto le multinazionali Nestlè e Danone – sta cercando di cambiare il modello alimentare europeo. Per farlo però bisogna modificare l’agricoltura azzerando le diversità e puntando all’omologazione. Su questa strada l’Italia è un ostacolo ingombrante. Con le famose 5R (Chianina Romagnola, Maremmana, Marchigiana e Podolica) abbiamo razze da carne Dop e produzioni da sette razze autoctone di maiale (oltre alla Cinta senese, la Mora romagnola, quella di Parma, la Calabrese, il Nero dei Nebrodi, Sarda e Casertana) ad allevamento brado e semibrado. Né i sistemi di allevamento né le «catene di smontaggio» alla tedesca sono compatibili con la nostra zootecnia.

Eppure non è la Germania sott’accusa, ma è l’Italia che deve difendersi. Ursula von der Leyen, spalleggiata tanto dal commissario all’Agricoltura polacco Janusz Wojciechowski quanto dal vicepresidente e commissario all’Ambiente, l’olandese Frans Timmermans che ha una sorta di supervisione sulle politiche agricole, vuole lanciare un progetto che mette insieme il suo Green deal con il 3F, cioè «From farm to fork», dalla fattoria al consumatore, una sorta di chilometro zero in chiave europea (di cui Panorama ha parlato nei numeri scorsi). È tutto fuorché un chilometro zero, però.

La nuova politica agricola avrà molti meno soldi (effetto Brexit) e finirà per avvantaggiare solo le produzioni del Nord Europa premiando la monocoltura. In fatto di alimentazione postula: «I sistemi alimentari devono urgentemente diventare sostenibili e operare entro i limiti ecologici del Pianeta» dimenticando che, per dirne una, la nostra dieta mediterranea è già Patrimonio dell’umanità. Il «From farm to fork» in realtà è un «from lab/brand to fork». Tant’è che si pensa di sostituire il sistema delle Dop con i brand (i marchi) aziendali. L’Ue sta anche per liberalizzare gli Ogm (Organismi geneticamente modificati) per togliere la chimica dai campi e dirottarla nei piatti.

Via libera anche al famoso Nutri-Score inventato dall’epidemiologo francese (si guardi la coincidenza…) Serge Hercberg. È l’etichetta a semaforo che penalizza i prodotti Dop e Igp italiani. Per esempio, l’olio extravergine di oliva che la Fda, l’agenzia di controllo americana, promuove come alimento-farmaco, viene bocciato dal Nutri-Score perché «grasso». Il Nutri-Score non piace agli agricoltori italiani ed entusiasma la Nestlè (il gigante svizzero dell’agroalimentare totalizza 3.000 marchi, 82 miliardi di fatturato) che ora ne chiede l’obbligatorietà in tutti i Paesi.

Ma se la politica Ue è «Farm-to-fork» perché è così gradita alle multinazionali che non coltivano, ma trasformano? Frans Timmermans non lo sa spiegare, però pontifica: «Il coronavirus ha evidenziato la nostra vulnerabilità e quanto sia importante ripristinare l’equilibrio tra attività umana e natura». Come i maiali «smontati» dalla Tönnies? Ah già, quelli vanno in Cina.

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