Home » Attualità » Esteri » Il sospetto: fuoco amico in Afghanistan

Il sospetto: fuoco amico in Afghanistan

Il sospetto: fuoco amico in Afghanistan

David Tobini, il giovane paracadutista caduto in Afghanistan nel 2011 durante un combattimento, non sarebbe stato ucciso dai talebani. Lo indicano le ultime analisi balistiche che parlano di «un colpo a distanza ravvicinata» e hanno fatto riaprire l’inchiesta. Confermando così i dubbi della madre Anna Rita, che sin dall’inizio chiede giustizia.


«Il dolore è lo stesso, ma cambierebbe tutto se David non fosse stato ucciso dai talebani. Come sollevavo dei dubbi, mi facevano il deserto attorno, dandomi della pazza, della visionaria. Adesso la procura di Roma ha riaperto l’inchiesta sulla morte di mio figlio» dice a Panorama Anna Rita Lo Mastro. La madre del caporal maggiore dei paracadutisti David Tobini, ucciso in Afghanistan nel 2011, è sempre stata una donna battagliera. Al rientro della salma si è presentata davanti al feretro con il basco amaranto di parà del figlio. «Bisogna fare chiarezza, anche se sono passati anni. Deve venire fuori la verità» scandisce la mamma del caduto.

Una perizia balistica e altri elementi hanno convinto il sostituto procuratore Sergio Colaiocco, che si occupa di tutti i casi delicati di italiani uccisi o sequestrati all’estero, a riaprire l’inchiesta frettolosamente chiusa nel 2011. «Ho riscontrato che Tobini è stato colpito pressoché a contatto e da dietro. Non con un proiettile sparato dal fronte talebano a 300-500 metri, come si sosteneva nel 2011» spiega Ermanno Musto, il perito balistico di parte specializzato nelle investigazioni scientifiche forensi. «Fuoco amico» è il tragico sospetto, che dovrà essere verificato dalle nuove indagini. Un tabù per le Forze armate italiane, ma non per quelle americane che dal Golfo all’Afghanistan contano perdite per fuoco amico tra il 13 e il 23%.

«Tobini si trovava all’interno di una buca in posizione frontale al nemico, ma un proiettile sparato dal basso verso l’alto lo ha colpito nella zona posteriore sinistra del cranio» osserva Paolo Pirani, l’avvocato incaricato dalla madre. L’elmetto del parà, che era conservato come un cimelio nella caserma del 183° reggimento Nembo a Pistoia, le fotografie, la relazione del Reparto investigazioni scientifiche (Ris) dei carabinieri di allora, la ricostruzione nei minimi dettagli dell’evento con l’utilizzo di droni hanno portato a risultati che non lascerebbero dubbi. «I nostri consulenti affermano che l’unico colpo che ha colpito David è stato sparato a contatto, 20-30 centimetri al massimo. Dalle fotografie risulta che c’erano tracce sia di affumicatura sia di bruciatura sull’elmetto e sulla scatola cranica» precisa il legale.

Panorama ha rintracciato due veterani della battaglia del 25 luglio 2011, nel nord ovest dell’Afghanistan, per capire cosa sia accaduto nella valle di Bala Murghab a David, che aveva compiuto da poco 28 anni. «Abbiamo sentito uno sparo, un minuto dopo è esploso l’inferno. I talebani tiravano a raffica verso di me e vedevo i colpi che si conficcavano nel terreno» racconta Simone D’Orazio, allora caporal maggiore scelto paracadutista della 18° compagnia Leoni. «Mi sono girato per ripiegare e un proiettile mi ha colpito alla schiena, vicino alla spina dorsale, uscendo dall’ascella. Ho avuto la sensazione che il cuore mi uscisse dal petto e sono stato sbattuto a terra. Non riuscivo a muovermi, non sentivo le gambe» ricorda D’Orazio, ferito gravemente.

Una settantina di paracadutisti del 183° reggimento Nembo della brigata Folgore aveva l’ordine di appoggiare le forze afghane nel rastrellamento del villaggio di Khame Mullawi alla ricerca i depositi di armi, in un’area infestata da talebani e signori della droga. Il terzo plotone di D’Orazio e Tobini, dopo una marcia di avvicinamento notturna, doveva garantire protezione da una collina. I paracadutisti si erano piazzati in buche distanziate, e in ciascuna stavano in due. D’Orazio ricorda che «David era a qualche decina di metri da me con il suo “coppio” (il termine in gergo militare per indicare il secondo nella buca, ndr). Subito dopo essere stato trascinato al riparo dai commilitoni ho sentito, in mezzo a una sparatoria da Far West, che qualcuno, forse il coppio, urlava: “È stato colpito David. L’hanno preso in testa”».

Un elicottero americano riuscì a evacuare sotto il fuoco talebano D’Orazio, che ricorda: «A bordo, disteso alla mia sinistra, c’era David. Ero quasi esanime, ma ho cercato la sua mano per stringerla. Non dimenticherò mai quanto era fredda». Oggi D’Orazio non è più in servizio. All’inizio era convinto che Tobini fosse caduto per mano dei talebani. Poi ha cercato di far parlare il «coppio» di David con la madre Anna Rita, ma lui si è tirato indietro. «Con gli altri fratelli (i commilitoni, ndr) ci siamo chiesti se potesse essere stato fuoco amico, ma avevamo scartato quest’ipotesi» dichiara D’Orazio. «Dopo aver letto la nuova perizia ci sono pochi dubbi: il colpo era ravvicinato, non arrivava dai talebani che sparavano a distanza. La madre fa bene a voler andare fino in fondo».

Forse la verità si poteva raggiungere subito, ma l’inchiesta è stata sbrigativamente chiusa il 6 giugno 2012. Peccato che la relazione del Ris di Roma con l’accertamento degli esiti balistici, che hanno aiutato i periti di parte a riaprire le indagini, sia arrivata oltre un anno dopo, il 18 novembre 2013. E i residui dei proiettili che hanno ferito due paracadutisti e ucciso Tobini sono stati distrutti grazie all’archiviazione.

«Ho visto caricare David sull’elicottero, ma tutti pensavamo fosse stato colpito dai talebani» sostiene il secondo veterano della 19° compagnia Linci, che ha fornito il grosso degli uomini per l’operazione. Ancora in servizio, non può rivelare il suo nome, ma conferma che «dal 2015 erano cominciate a girare delle voci sul fuoco amico. Le giudicavo infondate, anche se fin dal ritorno in Italia aleggiava una specie di cappa di silenzio nel reggimento sulla morte di Tobini. Non se ne parlava liberamente».

La madre del parà non si capacita che il figlio, a differenza di altri caduti, sia stato insignito della medaglia d’argento al valor militare e non d’oro. «Investito da intenso fuoco ostile, reagiva con l’arma in dotazione esponendosi più volte, incurante della propria incolumità, al fine di garantire la sicurezza dei propri commilitoni» riporta la motivazione. «Durante l’ennesimo tentativo di debellare la proditoria azione avversaria veniva mortalmente colpito».

Anna Rita dice a Panorama: «La spiegazione della Difesa per la mancata medaglia d’oro è stata che David “esponendosi e inginocchiandosi ha fatto un gesto inconsulto”». La madre vuole verificare e la nuova perizia non solo dimostra che non sarebbe andata così, ma fa riaprire l’inchiesta. «Il dubbio è diventato realtà»- ammette il secondo veterano rintracciato da Panorama. «Tobini, secondo le nuove carte, è stato ucciso da fuoco amico».

Nel 2011 il comandante del contingente italiano nell’Afghanistan occidentale era il generale Carmine Masiello, poi nominato consigliere militare a Palazzo Chigi da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Oggi è il vice direttore del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che coordina l’intelligence. Il procuratore Colaiocco, riaprendo le indagini, ha chiesto ai carabinieri del Ris accertamenti tecnico scientifici per capire se i nuovi elementi raccolti dal legale della madre di Tobini trovino riscontro. Le valutazioni della procura dovrebbero arrivare a fine anno.

Un altro mistero riguarda il Raven, il drone tattico usato sulla zona dell’aspro scontro, durato oltre tre ore, per individuare i talebani, che avrebbe potuto filmare anche Tobini. «Poco prima degli spari lo sentivamo sopra le nostre teste» conferma D’Orazio. Il secondo veterano denuncia che «non è stato possibile visionare i filmati perché, ufficialmente, il sistema di ripresa non avrebbe funzionato».

In zona di guerra il fuoco amico va messo nel conto: nel 2002 un caccia americano sganciò per sbaglio una bomba su 12 soldati canadesi uccidendone quattro nella provincia afghana di Helmand. Cinque anni dopo Lorenzo D’Auria, sottufficiale paracadustista dei servizi segreti italiani rapito dai talebani, è stato ferito mortalmente durante l’intervento per liberarlo delle Sas, i corpi speciali britannici. Una fonte di Panorama che conosce bene il caso conferma: «Si alzò per farsi vedere e fu investito dai proiettili. Era indubbio che fosse fuoco amico».

© Riproduzione Riservata