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Fideiussione Draghi

Fideiussione Draghi

Debito pubblico e inflazione in salita, ripresa da confermare. In questa situazione i conti pubblici italiani non rassicurano affatto. E la loro futura stabilità dipende soprattutto da una variabile…


Sperano, quando sarà indispensabile e l’avvenimento è futuro ma non incerto, che lo dirà di nuovo: «Whatever it takes». Tutto quanto è necessario, o se volete costi quel che costi. Ma quanto?

È la fideiussione Draghi, quella che i mercati, ma anche l’Europa concedono all’Italia. Faremmo bene a preoccuparci dell’ammontare di questo fido. Da Palazzo Chigi l’ex presidente della Banca centrale europea ha prolungato lo stato di emergenza causa Covid, molti hanno detto è il segnale che non corre per il Quirinale. Ascoltando forse le sirene del Financial Times che ha scritto: «Resti a capo del governo, ce n’è bisogno per la stabilità». Ma l’analisi del quotidiano britannico di proprietà dei giapponesi di Nikkei aveva una postilla: l’importante è che ci sia. Sembra l’ipotesi di Giancarlo Giorgetti, il ministro dello Sviluppo economico della Lega che qualche settimana fa spiazzò tutti affermando: «Draghi può salire al Quirinale e da lì, in un semipresidenzialismo “de facto”, guidare il Paese». In buona sostanza è questa la fideiussione.

La ragione di tanta apprensione sta nei numeri. Mettiamone in fila qualcuno. Il debito pubblico è tornato a salire ed è pari a ottobre, come certifica la Banca d’Italia, a 2.710 miliardi di euro. La produzione industriale a ottobre è diminuita dello 0,6 per cento segnalando un rallentamento dell’economia. A novembre la disoccupazione è scesa di uno 0,3, ma su 500 mila nuovi occupati oltre due terzi sono a termine. Sappiamo dall’Inps che nel 2020 i redditi si sono contratti del 6 per cento, che abbiamo una sacca di povertà di 6 milioni di persone, che la fiducia dei consumatori è tornata a calare a novembre. A questi dati se ne accompagnano due che tolgono il sonno anche a Draghi. Il primo è l’inflazione (3,7 per cento il dato definitivo di novembre), il secondo è la corsa senza freni dell’energia e del costo delle materie prime. Non si sa per quanto tempo il governo potrà continuare a inseguire il rincaro dei prezzi di gas e luce immettendo denaro: il conto è già salito a 3,8 miliardi. E che il clima sia di incertezza lo testimonia che la manovra di bilancio fa una gran fatica ad approdare in Parlamento.

Il governo rischia di battere ogni record di ritardo nella presentazione in Parlamento del documento economico. La manovra che Daniele Franco, ministro economico, continua a definire espansiva è tutta in deficit, la coperta è corta, lo shock fiscale non c’è e c’è poco fiato per mitigare l’impoverimento complessivo dell’Italia. Senza contare che i vari bonus edilizi rischiano di naufragare per eccesso di burocrazia e rincari e gli investimenti fanno fatica a partire. Iniziano a esserci incertezze sulla possibilità di rispettare a fine anno i 51 impegni per l’attuazione del Pnrr. E dunque per l’attivazione del Recovery fund. Senza quei soldi – sono però altro debito, ricordiamocelo – si farebbe fatica a sostenere nel 2022 un’ulteriore crescita indispensabile per recuperare i livelli pre-Covid, e non avverrà comunque se non a fine anno prossimo, e per rendere e far credere sostenibile il nostro enorme debito. Negli scorsi giorni, parlando alle Camere, Draghi ha confermato la crescita al 6,2 per cento per il 2021. Il turismo però si è di nuovo fermato e i provvedimenti di restrizione agli ingressi in Italia per il Covid, che tra l’altro ci stanno costando una severa reprimenda da parte di Bruxelles, certo non aiutano; i consumi delle famiglie vengono falcidiati dal caro energia e dalle incertezze sulla pandemia; i costi delle materie prime stanno mettendo in ginocchio interi comparti. Questo il quadro nazionale, ma intorno ci sono segnali ancora più preoccupanti. Uno su tutti l’inflazione che negli Stati Uniti galoppa al 6,8 per cento, in Germania è al 6, in Cina oltre il 12. Il quadro economico globale è quindi in deterioramento.

Standard & Poor’s però si azzarda a prevedere che entro la fine del 2022 i prezzi caleranno e che la Bce non si muoverà sui tassi prima del 2024 continuando a mantenere il sostegno all’economia. È lo scenario ottimistico, o forse miope, che per ora percorre l’Europa. Dall’altra sponda dell’Atlantico le cose non stanno così. Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, incalzato anche dal presidente Joe Biden che sa perfettamente che l’inflazione oltre un certo limite è un nemico subdolo, comincia ad attuare il cosiddetto tapering (il ritiro dal sostegno attraverso l’acquisto titoli), ma si prepara anche a una manovra sui tassi.

Larry Summers, già consigliere economico di Barack Obama, da mesi va dicendo a Biden che l’inflazione non sarà passeggera e lo stesso fa Jason Furman, altro economista del think tank democratico. In Europa Christine Lagarde dal vertice della Bce continua a proclamare, ma sempre con meno convinzione, che sarà un’inflazione passeggera legata solo al rincaro dell’energia e alle strozzature logistiche e non intende muoversi sui tassi, né ritirare l’acquisto titoli che peraltro scade a marzo. C’è l’incognita su cosa accadrà dopo.

Un’esponente dell’ala moderata tedesca come Isabel Schnabel che siede nel board della Bce e ha l’incarico di sorvegliare il programma di acquisto titoli si è però fatta sentire: «Se il quadro non muta in fretta questa politica monetaria troppo espansiva produrrà più danni che benefici». La Germania probabilmente non è disposta ad assecondare a lungo la crescita dell’inflazione né la politica monetaria accomodante della Lagarde. Il nuovo cancelliere Olaf Scholz prima in un colloquio con il premier olandese, il falco dei falchi Mark Rutte, poi nell’incontro con Emmanuel Macron è stato chiaro: «Abbiamo discusso di come rendere l’Europa di nuovo forte. È possibile sia avere la crescita sia finanze solide nell’Unione europea, non dobbiamo però perdere di vista la necessità di continuare a lavorare sulla stabilità delle nostre finanze». Il fatto è che nel nuovo governo Scholz, come ministro delle Finanze, siede il capo dei liberali Christian Lindner, integralista del rigore che vede l’inflazione come fumo negli occhi. Su di lui il Nobel Joseph Stiglitz ha espresso un giudizio durissimo: «Le idee di Lindner sono un accumulo di cliché conservatori, l’Europa non può permettersi questo crash test». Linder ha già avuto un contatto con il nostro ministro dell’Economia Daniele Franco e, al di là dei convenevoli, si è cominciato a discutere di nuovo patto di stabilità.

Che cosa pensa il neo ministro tedesco dell’Italia è riassunto in un suo giudizio di qualche mese fa: «L’Europa unita uscirebbe rafforzata se un membro cronicamente malato lasciasse la zona euro almeno temporaneamente». Lo stesso Draghi ha invece affermato di recente: «Le regole del Patto di stabilità (3 per cento nel rapporto deficit/Pil e 60 per cento rapporto debito/Pil, ndr) si sono rivelate inefficaci e anche dannose, sarebbero dovute essere cambiate in ogni caso ma poi con c’è stato l’avvento della pandemia… Occorrerà arrivare a un nuovo sistema di regole». Peraltro i liberali tedeschi, con un ricorso alla loro Corte costituzionale, chiedono anche che non vi sia un meccanismo automatico di salvataggio delle banche.

È dunque un azzardo confidare che la Bce continuerà a comprare al ritmo attuale i nostri titoli di Stato e che non ci sarà un ritocco dei tassi. Qualsiasi manovra ristrettiva dell’Eurotower per l’Italia sarebbe esiziale. Abbiamo quei 2.710 miliardi da finanziare, dobbiamo garantire i mercati – che stanno con lo spread in vigile attesa attorno a quota 130 punti – che il nostro debito è sostenibile. Per farlo ci serve accreditare che cresciamo del 6 e passa per cento, più di tutti in Europa. Ma già sull’anno che verrà s’addensano forti incognite.

Perciò conta solo la fideiussione Draghi. Incassabile a palazzo Chigi, se va bene, per un anno o per i prossimi 84 mesi dal Colle. Questo è il «whatever it takes» che ci chiedono: mettetelo dove volete purché a garantire per l’Italia resti Mario Draghi.

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