- Cronache dall’inferno dell’11 settembre
- Poca intelligence per gli 007
- Missione finale: nella mente del principe del terrore
Articolo pubblicato il 20/9/2001
Uomini e donne terrorizzati che vagano per Manhattan. Sopravvissuti disperati per non essere riusciti a salvare amici e colleghi. Soccorritori morti per aiutare la gente. Il tragico racconto di una mattinata che ha sconvolto il mondo.
Sto correndo rincorso da una nuvola nera che è tutto quello che resta del World Trade Center di Manhattan. Sono le 10.28 di martedi 11 settembre: anche la seconda delle Torri gemelle, quella Nord, è crollata dopo la prima come un castello di sabbia. Ed è cenere bianca quella che mi inghiotte quando finalmente la nuvola raggiunge me e i poliziotti che corrono a fianco dei cameramen, dei vigili del fuoco e degli agenti dell’ antiterrorismo.
Quando anche l’ ultima eco dell’ esplosione si spegne, siamo tutti statue bianche circondate da una cascata di coriandoli gialli: sono le pagine dei bloc notes che usavano gli avvocati che lavoravano nel grattacielo. Per terra ci sono prospetti finanziari, stampate di e-mail, i fogli rosa con annunci di telefonate. Qualcuno si mette a raccogliere i frammenti: su uno c’ è scritto Fuji Bank, sull’ altro Us Custom, su un altro Millennium Vista Hotel, e Chase Manhattan. Sono i nomi delle aziende in cui lavorava la gente del World Trade Center: c’ erano 50.000 persone dentro quelle torri che ora non si vedono più all’ orizzonte.
Il primo superstite arriva su una bicicletta senza sellino che si muove a malapena nel mezzo metro di sabbia che ormai copre tutto: «Non è mia, l’ ho trovata abbandonata tra le macerie e l’ho presa» racconta. La parte destra del suo gessato è coperta di sangue, sulla bocca ha una maschera antigas. «Sono uscito lasciandomi indietro quattro colleghi della mia merchant bank» dice, e scoppia a piangere. «Volevo aiutarli ma non potevo toccarli perché i vestiti si erano liquefatti sul loro corpo: è inutile andare lì, non è rimasto vivo nessuno». Passa un camion con sopra un gommone: dovevano usarlo i reparti antiterrorismo sottomarini ma invece porta feriti.
Di uno si vedono solo gli occhi rossi, il resto è un uomo di neve che trema: «Ero all’81esimo piano, sono sceso per le scale, ero quasi fuori quando tutto mi è crollato addosso» racconta. «Quando sono uscito, per terra c’ erano i corpi dei vigili del fuoco che erano accorsi dopo il primo scoppio: uno era tagliato a metà e sanguinava». Un altro vigile del fuoco arriva sottobraccio a una assistente sociale: invece del casco ha una benda sulla testa. Gli manca uno stivale, sembra abbia perso la strada: «No, non devi tornare al lavoro, devi andare a casa, ora appena troviamo un’ambulanza libera ti portiamo» gli dice la donna. Si sente un botto, poi un altro, poi un altro ancora a breve distanza: «Le tubature del gas» urla una donna. «Autobomba» dice un altro.
Un aereo militare sfreccia nel cielo facendosi largo tra due elicotteri dei network televisivi: «È uno dei nostri?» chiede un poliziotto, e per la prima volta è chiaro che siamo in guerra, anche se il nemico non si vede. Finora era sembrato un film, e di quelli girati male. A Washington square centinaia di studenti erano stati fermati da un botto mentre entravano per il corso del mattino alla New York university: guardando a sud avevano visto le fiamme uscire dal settantesimo piano dove si era infilato l’ American Airlines 11 dirottato dai terroristi con a bordo 92 persone.
Diciotto minuti dopo migliaia di newyorkesi hanno visto l’American Airlines 77 con 64 persone a bordo schiantarsi contro la seconda Torre prima planando e poi pigliando velocità. «Wow» urlava la gente sulla Quinta avenue mentre New York si fermava col fiato sospeso a guardare i due buchi neri scavati nel simbolo della città. Molti chiamavano casa ma i cellulari non funzionavano. «Di’ a mamma che sto bene, di non preoccuparsi perché come al solito ero in ritardo e non sono entrata nella torre» diceva una ragazza fuori dalla fermata della metropolitana che porta in New Jersey.
In metropolitana, sulla linea 1, di solito piena dei pendolari di Wall Street, il conduttore diceva a tutti di uscire: «Il traffico è sospeso per via delle esplosioni al World Trade Center: scendete dal treno e dite una preghiera per quelli che sono dentro le Torri. Vi prego dite una preghiera, ora». Fuori era una giornata di sole, di quelle che di solito fanno muovere Manhattan più veloce.
Ma neppure una macchina circolava per le strade, neanche un negozio era aperto, solo un bar con una televisione accesa su una colonna di profughi che avrebbero potuto essere in Kosovo se non fosse che stavano camminando sul Brooklyn Bridge. I taxi gialli erano fermi con la radio accesa: «È crollato il Pentagono, hanno abbattuto il grattacielo Sears a Chicago» diceva qualcuno, sbagliando di poco. «Tutta colpa di Bush: invece di essere qui è già in un bunker» incalzava un altro.
Alla radio un commentatore aveva ancora voglia di fare ironia: «Gli aeroporti sono chiusi, i treni non funzionano e anche la borsa è chiusa, per fortuna». Ma più ci si avvicinava alle torri in fiamme più il film diventava una tragica realtà: «Dio mio, no» sibilava un ragazzo biondo guardando gli impiegati che si gettavano dagli ultimi piani dell’ inferno di cristallo. Hanno scelto di morire così in tanti: cadendo non urlavano ma si dimenavano, come se stessero nuotando. Prima è caduta una donna, poi una coppia mano nella mano, infine un uomo. Ma è solo quando le torri sono crollate, prima una e poi l’ altra, che nelle strade molti sono scoppiati a piangere: «Non le vedrò più, non le vedrò più» si disperava uno studente biondo. «Come faccio a spiegarlo a mia figlia?» aggiungeva un altro uomo mentre su New York scendeva un silenzio irreale interrotto solo dalle sirene della polizia.
A mezzogiorno New York è in apnea. Davanti all’ Odeon, il ristorante dove una volta i finanzieri pranzavano all’ ombra delle torri, hanno allestito un ospedale improvvisato ma la polizia urla agli infermieri di sgombrare: «C’ è un pacco sospetto, c’ è un pacco sospetto». All’1 si sparge la voce che uno dei due aerei caricava armi biologiche, forse gas, e che gli ospedali sarebbero stati presi d’ assalto presto da gente in preda a crisi respiratorie: la voce poi è stata smentita, ma decine di mezzi di soccorso erano stati nel frattempo rimandati indietro.
Nella macchina della volante la radio gracchia una lista di altri obiettivi per i terroristi, e sono tutti nel raggio di poche centinaia di metri dal World Trade Center. C’è One Police Plaza, il quartiere generale della polizia verso cui corrono le macchine blu a sirene spiegate. C’ è il Federal building davanti a cui ogni mattina fanno la fila migliaia di immigrati che sperano di diventare cittadini anche se all’improvviso anche il loro sogno sembra meno luccicante.
E poi c’ è 7 Wall street, che al sedicesimo piano ospita il bunker antiterrorismo voluto da Rudolph Giuliani proprio per coordinare la risposta ad attacchi terroristici come quelli di questa mattinata maledetta: non serve neanche quello, è stato evacuato prima di crollare, e il sindaco sfreccia dentro un pullman coperto di cenere che lascia intravedere la scritta: Unità di pronto intervento. Quando esce racconta di essere stato intrappolato anche lui dentro il bunker: «Per 10 minuti abbiamo pensato che non saremmo usciti ma poi per fortuna ce l’ abbiamo fatta».
Il bunker venne costruito dopo l’ attacco terroristico del 26 febbraio 1993, quando 900 chili di esplosivo uccisero sei persone e ne ferirono 11. Ma Andy Garcia, un impiegato che era sopravvissuto a quell’ attacco e che ora è coperto di sangue, dice che non c’ è paragone: «Allora ci sembrava un disastro immane ma non è niente in confronto alle migliaia di persone che sono rimaste seppellite sotto le torri oggi». Otto anni fa nessuno avrebbe pensato che nel giorno in cui New York doveva pensare al suo nuovo sindaco, con l’ inizio delle primarie, traghetti carichi di corpi avrebbero raggiunto il New Jersey perché i 170 ospedali della città erano già pieni. Che navi da guerra si sarebbero dirette verso la città in stato d’ assedio. Nessuno avrebbe immaginato due buchi da cui sale una nuvola di fumo circondati da strade senza macchine, e solo un senzatetto ubriaco che canta: «È la guerra, è la guerra».
Marco De Martino
Poca intelligence per gli 007

Articolo pubblicato il 20/9/2001
Gli Stati Uniti sapevano di essere un obiettivo vulnerabile alle azioni del terrorismo islamico fin dal primo attentato alle Twin Towers, nel 1993, ma non immaginavano certo di essere completamente indifesi di fronte a un massiccio attacco kamikaze eseguito con velivoli di linea dirottati addirittura sul Pentagono, simbolo dello strumento militare della più grande potenza mondiale.
Il collasso del sistema statunitense di sicurezza e intelligence è stato clamoroso, come dimostrano le contromisure adottate quali il blocco di tutto il traffico aereo nazionale, l’evacuazione dei centri governativi inclusa la Casa Bianca e il trasferimento di George Bush in una base aerea strategica della Louisiana. Procedure previste solo in caso di guerra totale, di un conflitto atomico.
Ma cosa non ha funzionato nel sofisticato sistema di sicurezza statunitense? I sistemi di ascolto e intercettazione, satellitare e terrestri, gestiti dalla National security agency e capaci di spiare e analizzare le comunicazioni di tutto il mondo non sono evidentemente riusciti a captare o interpretare i colloqui dei terroristi nonostante il notevole impiego di mezzi e risorse concentrati proprio nel controllo della minaccia islamica.
La Cia, molto attiva in Medio Oriente dove presiede gli incontri del comitato congiunto israeliano-palestinese, deputato a ristabilire le condizioni di sicurezza a Gaza e in Cisgiordania, non è stata in grado di configurare la terribile minaccia diretta al cuore degli States.
Eppure, nel giugno scorso, erano trapelate indiscrezioni secondo le quali proprio la Cia, insieme agli 007 britannici dell’ Mi6 e tedeschi della Bnd, aveva lanciato l’ allarme per possibili offensive terroristiche dirette dal movimento Al Qaeda guidato da Osama Bin Laden contro gli Stati Uniti, l’Europa e Israele.
Le azioni terroristiche avrebbero costituito la risposta al verdetto di condanna emesso dalla Corte federale di giustizia di New York nei confronti di quattro terroristi islamici coinvolti negli attentati contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania dell’ agosto 1998. Nel rapporto si consideravano particolarmente a rischio gli interessi, le sedi diplomatiche e di rappresentanza, le installazioni industriali e le basi militari di questi paesi, ma si faceva esplicito riferimento anche a minacce dirette contro i rispettivi territori nazionali.
L’ allarme lanciato dai più efficienti servizi di intelligence occidentali era stato successivamente confermato da un analogo rapporto del Mossad e dell’Agaf Modin (l’intelligence militare) israeliani che sottolineava la penetrazione della Al Qaeda nei campi palestinesi alla periferia di Amman e la possibilità di rappresaglie dirette contro gli Stati Uniti per la lotta senza quartiere scatenata dalla Cia in tutto il mondo.
Lotta con l’obiettivo di catturare gli elementi di maggiore spicco della rete di Bin Laden e che ha portato negli ultimi mesi all’arresto di una ventina di terroristi in Europa e Medio Oriente, in particolare dell’algerino Mohamed Bensakhria, capo del Gruppo Meliani, arrestato dalla polizia spagnola che lo sospettava tra l’altro di preparare un attacco terroristico contro il Parlamento europeo a Strasburgo.
Gli Stati Uniti avevano quindi a disposizione informazioni sufficienti per ritenere imminente un’operazione terroristica in grande stile. Mentre, secondo indiscrezioni, il Federal bureau of investigation aveva raccolto informazioni circa il rischio di probabili dirottamenti aerei. Conoscevano la minaccia potenziale, ma ignoravano che i terroristi si trovavano già sul territorio americano.
Al di là delle analisi circa il flop di tutte le agenzie preposte alla difesa della sicurezza nazionale, resta il fatto che il gruppo terroristico che ha portato a termine il più incredibile e sanguinoso atto di guerra sul suolo statunitense ha potuto disporre di commando suicidi motivati, ma anche molto ben addestrati, supportati da una rete logistica negli Usa che non può certo essere stata improvvisata né costituita su due piedi.
Il lavoro preparatorio per far affluire i kamikaze negli States potrebbe essere durato mesi, forse anche anni, nei quali è stata creata una fitta rete di sostegno che è sfuggita ai pur rigidi controlli antiterrorismo attuati negli Stati Uniti. Oltre a ciò occorrerà scoprire come è stato possibile che quattro differenti unità terroristiche potessero imbarcarsi sui velivoli senza che venissero individuate le armi delle quali dovevano pur disporre per effettuare i dirottamenti.
Anche gli obiettivi sono stati scelti attentamente. Twin Towers e Pentagono sono universalmente rappresentativi del potere e del prestigio economico e militare degli Stati Uniti mentre è stata accuratamente evitata la Casa Bianca che da alcuni anni (da quando un dimostrante la sorvolò con un piccolo aeroplano da turismo) è protetta da sistemi antiaerei Stinger in grado di abbattere velivoli in volo a bassa quota.
Del resto, sia il fattore tempo sia l’utilizzo di aerei civili di linea hanno giocato a favore dei terroristi. L’ incredibile numero di aerei ed elicotteri di ogni tipo in volo sulle grandi metropoli statunitensi rende di fatto impossibile ogni forma di difesa contro una minaccia terroristica kamikaze. Un grande jetliner dirottato in fase di atterraggio può cambiare rotta improvvisamente e in pochi minuti schiantarsi su qualunque area della città senza che la torre di controllo dell’ aeroporto abbia il tempo di capire che cosa sta accadendo.
Pochi minuti nei quali è impossibile esaminare il caso, analizzare i rischi e chiedere alle autorità competenti di porre in allerta la base aerea più vicina per far decollare jet da caccia incaricati di abbattere un aereo con a bordo decine o centinaia di civili. A differenza di Israele, dove la minaccia terroristica è localizzabile a ridosso e addirittura all’ interno del territorio nazionale e lo spazio aereo è protetto da formidabili misure in grado di individuare anche gli ultraleggeri impiegati dagli hezbollah, gli Usa non hanno mai ritenuto credibile il rischio di attacchi terroristici dal cielo.
Per questa ragione, quanto è accaduto a New York, Washington e Pittsburgh, oltre a seminare il terrore in tutti gli Stati Uniti e a determinare un inevitabile ricambio dei vertici della sicurezza nazionale, obbligherà la Casa Bianca a riesaminare e modificare radicalmente la sua dottrina antiterroristica. Da Tel Aviv è già giunta la piena disponibilità a fornire suggerimenti utili.
Gianandrea Gaiani
Missione finale: nella mente del principe del terrore

Articolo pubblicato il 4/10/2001
«Mi appello alla nuova generazione perché sia pronta per la Jihad e si prepari ad affrontarla in Afghanistan perché la guerra santa nei momenti di crisi è un obbligo per tutti gli islamici». Quattro mesi prima degli attentati a New York e a Washington, a metà maggio di quest’anno, dal suo bunker vicino all’aeroporto di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan, Osama Bin Laden spedì con un corriere questo proclama, a sua firma, ai leader religiosi e politici islamici riuniti a porte chiuse a Peshawar, la cittadina-santuario dell’estremismo islamico in Pakistan.
È un documento inedito di cui Panorama ha ottenuto la traduzione da uno dei mullah presenti al convegno. Dimostra senza ombra di dubbio che l’inafferrabile capo del terrorismo fondamentalista aveva messo nel conto la ritorsione americana contro la sua organizzazione-holding, il Fronte internazionale islamico, e contro i talebani, ancora prima che si sbriciolassero le Torri gemelle e un’ala del Pentagono.
Anzi, secondo le fonti religiose pakistane, proprio in coincidenza con quell’editto, lo sceicco d’origine saudita ordinò l’attivazione delle cellule in America. Fino a quel momento Bin Laden aveva sospeso ogni operazione perché voleva prima di tutto capire in quale direzione andava la politica estera in Medio Oriente e nel Golfo Persico del nuovo presidente americano, George Bush.
Del «sionista Bill Clinton» sapeva tutto, di come aveva cercato di ucciderlo con i missili Cruise nell’agosto del 1998 e, poi, con i commando inviati dalla Cia. In Bush invece confidava non fosse altro perché veniva dal mondo dei petrolieri. Nell’attesa decise di bloccare anche la pubblicazione della sua biografia, scritta sotto dettatura da Hamid Mir, 36 anni, il caporedattore del quotidiano in lingua urdu Ausaf, vicino ai movimenti islamici, e prevista in uscita nel marzo scorso.
«Aspettiamo gli eventi» fece sapere a Mir, il quale non può mandare in stampa nulla, secondo il contratto firmato tre anni fa davanti a un avvocato afghano, senza il consenso scritto del protagonista. Ma più passavano le settimane, più Bush dava l’impressione di non essere poi così filoarabo, come Bin Laden sognava a occhi aperti guardando le stelle nelle lunghe e rigide notti insonni nel deserto di Kandahar.
E allora via alla nuova jihad (metà maggio), morte agli americani (11 settembre), guerra ai «crociati ebrei e cristiani» (domenica 23 settembre). Nel mondo di Osama Bin Laden nulla è mai affidato al caso. Azione e reazione sono sempre messe nel conto come in una partita a scacchi. Tutto funziona in base a calcoli tattici, alleanze strategiche, segreti piccoli e grandi.
Cominciamo da quelli apparentemente più innocenti: le continue visite clandestine della madre, una donna di origini yemenite che ha ormai 90 anni. Andò a trovarlo la prima volta quando lui era in Sudan, nel 1994. Il capo dei servizi segreti sauditi, il principe Turki al Faisal, organizzò il volo e l’incontro.
La donna aveva un messaggio personale di re Fahd: immunità totale se tornava a casa, nessuna estradizione in America, fine delle attività sovversive contro il regno di Saud. «Mamma, non posso, la mia vita è questa, l’ho dedicata tutta ad Allah e alla guerra agli infedeli e ai corrotti» rispose Osama, secondo quanto lui stesso ha raccontato a Mir. «Convinci il re a mandare via le truppe americane che calpestano il sacro suolo della nostra patria. Allora tornerò».
L’ultima volta che la madre ha provato a convincere il figlio è stato lo scorso 9 gennaio. Anche in questo caso il volo speciale è stato organizzato dal principe Turki (cacciato poi alla fine di agosto da re Fahd proprio per i suoi insuccessi). La donna era stata invitata al matrimonio del nipote Mohammad, il preferito di Bin Laden, con la figlia del braccio destro e capo militare dell’organizzazione, l’ex poliziotto egiziano Abu Afas al Masri. Trecento gli invitati alla cerimonia, ripresa anche da una troupe della tv satellitare araba Al Jazira, moltissimi (quasi 200) i mullah provenienti da Peshawar.
La mamma del terrorista rimase a Kandahar alcuni giorni sperando nel miracolo. Vide il figlio andare a cavallo tutte le mattine (ha due scuderie), divise con lui, nel grande thali (il tradizionale piatto afghano), riso e pezzi di capra, ascoltò i poemi. Niente. Osama non aveva alcuna voglia di ritornare a spassarsela nel lussuosissimo palazzo di Jedda.
Ma sono i segreti più inconfessabili quelli che spiegano la straordinaria capacità di sopravvivenza di Bin Laden e dei suoi fanatici. Esattamente nell’estate di due anni fa, Saddam Hussein inviò in missione l’uomo al quale dà più fiducia dopo il figlio Qusai: il capo dei servizi segreti iracheni, Rafi Dahman al Tikriti, ex ambasciatore in Turchia. Dopo un lungo viaggio in macchina dal quartier generale del Mukhabarat iracheno, nel distretto di Mansour, a Baghdad, fino ad Amman e, di qui, in volo a Islamabad, il capo delle spie irachene si fermò per alcune notti in una suite dell’hotel Marriott, il più rinomato della capitale pachistana.
Aspettò pazientemente la telefonata giusta e poi partì in auto per Peshawar. Una breve sosta e un’altra auto lo portò oltre il confine, fino a un rifugio nelle montagne. Fu ricevuto dall’ideologo del movimento, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri. «Come sa, lo sceicco non ama molto Saddam Hussein» esordì il numero due del Fronte islamico, secondo quanto riferisce il biografo di Bin Laden. «È proprio per colpa di Hussein se le truppe americane hanno potuto installarsi in Arabia Saudita. Comunque mi ha incaricato di ascoltare le sue richieste».
Quali erano? «Il capo del servizio segreto offrì asilo e protezione in Iraq a Bin Laden e ai suoi collaboratori in cambio dell’appoggio dell’organizzazione» racconta ancora Mir. Per fare cosa? «Organizzare la grande vendetta di Saddam Hussein contro il regno saudita e l’America».
Questo contatto, il primo di una serie, fra il Mukhabarat iracheno e la struttura terroristica di Bin Laden la dice lunga sugli appoggi di cui hanno goduto in questi anni le cellule islamiche sparse in 34 Paesi del mondo. «Il nemico del mio nemico è mio amico» ha dettato nelle sue memorie lo sceicco saudita riferendosi proprio all’alleanza tattica con Saddam Hussein, da lui definito «un nazionalista arabo» in contrapposizione alla sua visione «fondamentalista globale».
E allora c’è da chiedersi: chi usa chi? Ascoltando i giornalisti che hanno raccolto le sue confidenze, intervistando i generali pakistani che gli sono stati più vicini, la verità che sembra emergere è quella di un Bin Laden che molti servizi segreti hanno cercato di manipolare, ma che alla fine ha sempre tenuto ben in mano le redini del complicato gioco degli specchi e dei trucchi. «Anche la Cia ci provò 15 anni fa a servirsene. I risultati li abbiamo visti dopo» dichiara a Panorama nella sua villa di Rawalpindi il generale Hameed Gul, ex direttore dell’Isi, il potentissimo servizio segreto pachistano, negli anni in cui, a partire dal 1986, l’agenzia spionistica americana guidata da William Casey, quella saudita del principe Turki e il servizio pachistano strinsero un patto segreto per finanziare e sostenere i mujaheddin afghani contro gli invasori dell’Armata rossa dell’Urss (fu la prima esperienza in Afghanistan di Bin Laden).
Anche in seguito, quando nel 1996 i talebani arrivarono al potere a Kabul, l’Isi pachistano ha sovvenzionato e tentato di indirizzare a suo favore il movimento di Bin Laden. Molti agenti si sono infiltrati, altri hanno fatto il doppio gioco passando al servizio dello sceicco miliardario. È il caso di Khalid Kwaja, un ex colonnello dell’intelligence pakistana, che oggi si definisce «il maestro di armi del fratello Osama», quello che per 20 anni gli ha insegnato le regole fondamentali del controspionaggio e ha messo in piedi i campi di addestramento.
Vicino all’aeroporto di Kandahar, gli 007 pachistani hanno costruito bunker sotterranei dove sono stati installati gli apparati di comunicazione in grado di collegare i vari capi militari. La struttura complessiva del Fronte islamico è modellata secondo i canoni di Saladino, la vera guida di Bin Laden: un piccolo comando (Shura) sul posto diviso in quattro comitati (politico-religioso, militare, finanziario e per i rapporti con i media) e una vasta rete di militanti dispersi nei vari continenti, che vengono «risvegliati» per le missioni con e-mail e telefonate in codice quando scatta l’ora X.
Sono almeno 11.000 quelli passati dai campi afghani, secondo l’intelligence pachistana. «Hanno imparato le tecniche di sopravvivenza nelle peggiori condizioni, senza cibo e acqua, si sono addestrati a usare ogni tipo di arma, dai coltelli ai missili, si sono abituati a installare gli esplosivi nelle auto e nei camion per le missioni suicide» spiega Najum Mushtaq, un analista militare di Islamabad. «Di tanto in tanto, per sopportare la fatica e il dolore fisico, hanno anche ricevuto piccole dosi di oppio. I sermoni di al-Zawahiri sono stati una droga ancora più pesante.
«Pochi lo sanno, ma il medico egiziano è sicuramente più estremista di Bin Laden» giura Mir. L’ultimo servizio segreto, in ordine di tempo, che ha sorretto le operazioni militari dell’organizzazione islamica è quello dei talebani. «Contrariamente a quello che si può pensare è una struttura efficiente, divisa in 12 settori, e ha il quartier generale a Kabul, in pieno centro» racconta un ufficiale pachistano che conosce i barbutissimi 007 afghani.
Sono stati proprio loro, negli ultimi anni, a mettere in contatto gli emissari di Bin Laden con i trafficanti di armi di Peshawar (anche per l’acquisto di uranio e missili cinesi) e addirittura li hanno consigliati su come aprire alcuni conti correnti nelle banche di Dubai, Lugano, Liechtenstein, Singapore, dove sono affluiti i soldi delle «organizzazioni di carità» islamiche e dei vari principi ed emiri del Golfo Persico.
Ora tutto questo capillare network di campi di addestramento, bunker, depositi di armi, centri di comando e controllo militari, sedi dell’intelligence e caserme degli arabo-afghani, nonché le centrali elettriche, le antenne per le telecomunicazioni, gli aeroporti principali e le piste aeree secondarie, sono fra i primi obiettivi dei bombardieri americani e dei commando delle unità speciali.
È da qui che dovrebbe cominciare la «missione finale» delle forze antiterroristiche contro Bin Laden e la sua rete di morte. Forse il giornalista pachistano Hamid Mir dovrà aspettare ancora per pubblicare la biografia di Bin Laden. Oppure dovrà farlo senza la sua autorizzazione.
Pino Buongiorno