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Sos: container alla deriva

Sos: container alla deriva

Con la pandemia sono aumentati gli acquisti da remoto e, con essi, il trasporto della merce su navi cargo. Ma è anche cresciuto a dismisura il numero dei contenitori di metallo che cadono in mare. Un pericolo per la navigazione e per l’ambiente. Al punto che l’Onu corre ai ripari.


Ondeggia dalla cima della nave, si sgancia, scivola stridendo fino a tuffarsi in mare. E un altro container è perduto.
Ne cadono a centinaia ogni anno, ma da quando c’è la pandemia succede sempre più spesso. Tremila quelli finiti fuori bordo nel 2020, già 1.000 nei primi tre mesi del 2021. Rischia di essere l’anno più nero di sempre, sostiene il World shipping council, la principale associazione nel settore delle spedizioni internazionali di linea. Anche più nero del 2013, quando il cargo Mol Comfort si spezzò in due davanti allo Yemen scaricando nell’Oceano indiano 4.293 container in un colpo solo.

Invece adesso è uno stillicidio. Dieci qui, 200 là, 260 persi davanti alle coste giapponesi in febbraio dalla Maersk Eindhoven, rimasta in avaria tra onde alte come palazzi. Un mese prima c’erano stati i 750 della Maersk Essen in navigazione tra Xiamen, in Cina, e Los Angeles. A novembre la giapponese One Apus si è ritrovata in mezzo a una tempesta lungo la rotta da Yantian (sempre Cina) a Long Beach in California: il mare le ha strappato di dosso circa 1.900 container. E questi sono soltanto alcuni tra i casi più eclatanti. La realtà è che non si sa neanche quale sia il reale numero perché, a meno di immediati danni ambientali, non esiste l’obbligo di comunicare alle organizzazioni internazionali se e quanto si è perso.

Non solo: gli esperti spiegano che delle cadute minori non ci si accorge neanche. Dalla cabina di pilotaggio si vedono soltanto i container più vicini, che coprono la visuale sul resto del ponte. E anche se si capisce che c’è stato un danno, è difficile determinarne subito l’entità: questi incidenti avvengono soprattutto in condizioni meteo ostili e per i marittimi a bordo è troppo pericoloso camminare sul ponte tra instabili scatoloni d’acciaio lunghi sei metri.

Così in acqua finisce di tutto: scarpe da tennis, pneumatici, farmaci, smartphone, giocattoli, televisori, jeans… Una lista infinita con lo scibile del commercio mondiale. Compresi prodotti pericolosi, come quelli dispersi in mare dalla citata One Apus: una sessantina di container portavano fuochi d’artificio, batterie, etanolo… Tutto in mare.

Il numero crescente di incidenti è dunque in qualche modo collegato agli acquisti da remoto, che si sono moltiplicati durante il lockdown. Merce per lo più prodotta in Asia e venduta nel resto del mondo (basta ricordare che le industrie cinesi hanno esportato 224 miliardi di mascherine da marzo a dicembre 2020 di cui una minima parte consegnata in aereo, e che l’export di farmaci e attrezzature mediche è salito del 31% rispetto al 2019). Poi ci sono tutte le altre esigenze nate in quarantena e che hanno fatto crescere l’e-commerce, in un anno, di più del 50%. Oggetti per lavorare, per intrattenersi, insomma per vivere tra le mura domestiche.

Per tenere il ritmo forsennato richiesto alla catena di distribuzione, quotidianamente 17.000 porta-container (stime della International chamber of shipping) solcano i mari, in molti casi caricate fino al limite di sicurezza. E sono navi grandi, sempre più grandi, utili a muovere ogni anno 226 milioni di container. La capacità di trasporto, ha calcolato Allianz global corporate & specialty, uno dei principali assicuratori marittimi, è aumentata di circa il 1.500% negli ultimi 50 anni ed è quasi raddoppiata nell’ultimo decennio. Si è passati dai 1.530 container a bordo dell’imbarcazione più grande presente sul mercato nel 1968, agli 11 mila del 2006, ai 24.000 delle ultime generazioni di «box boat» lunghe quanto quattro campi da calcio.

Oltre a questo c’è la rapidità, cioè la necessità di recapitare la merce nel minor tempo possibile. E più si accelera, meno si fa attenzione alla sicurezza. Il frettoloso «rizzaggio» dei container (l’insieme delle operazioni per fissare il carico) avvenuta in qualche lontano porto, ma anche la scelta (delle società più che dei comandanti) di attraversare una tempesta anziché girarci intorno, pur di non perdere tempo prezioso. Ma nell’Oceano il mare non fa sconti – la crescita del commercio via nave dalla Cina nel 2020 è coinciso con i venti più forti registrati nel Pacifico del Nord dal 1948 – e le grandi navi rese più instabili da altissime pile di container possono anche incorrere nel rollio parametrico, ovvero un estremo rollio combinato al movimento della prua che scende fino a immergersi.

Una sollecitazione da cavalcata su toro meccanico, che metterebbe e mette a rischio la tenuta di qualsiasi carico. «La maggior parte dei problemi è causata dalle forze create da questi movimenti» confermano a Panorama dall’Organizzazione marittima internazionale, ovvero l’istituto delle Nazioni Unite che ha lo scopo di rendere più sicura la navigazione nel mondo. E sarebbero minori «prendendo le giuste misure per lo stoccaggio e il fissaggio di quanto trasportato, ma anche riducendo ampiezza e frequenza dei movimenti della nave». Come a dire: se si affronta una tempesta, difficile non mettere a repentaglio il carico.
La caduta in mare dei container pone questioni di varia natura e innanzi tutto di sicurezza. Ce ne sono che si inabissano, altri che continuano a galleggiare ben in vista, altri ancora che rimangono sotto il pelo dell’acqua costituendo un serio pericolo per la navigazione e l’incubo di ogni velista.

Non è un caso se pochi giorni fa, all’ultimo Comitato per la sicurezza marittima (Msc) dell’Organizzazione marittima internazionale, uno dei temi affrontati con maggiore determinazione è stato proprio questo: la caduta dei container è fuori controllo. Il risultato è stato un accordo per realizzare, entro due anni, un sistema di monitoraggio ad alto tasso tecnologico. Parole chiave: geolocalizzazione e recupero.

Ma si creeranno anche normative per costringere i vascelli a identificare le perdite e a dichiararle, sempre grazie all’uso di nuovi strumenti tecnologici che forse saranno resi obbligatori. «La pandemia e gli incidenti stanno spingendo il mondo dei container fuori dal suo Medioevo» esultano i media orientali citando anche il gran numero di start up create da ex manager di Amazon, Facebook o Uber per la gestione di questo business.

Ma al momento il danno rimane, e le ripercussioni sull’ambiente non possono essere trascurate. Quando un container si rompe, i prodotti più pesanti vanno a fondo, mentre gli altri rimangono in sospensione o addirittura galleggiano facendo lunghi giri nell’Oceano. Come il curioso caso di migliaia di cartucce per stampanti HP disperse nell’Atlantico anni fa, nei pressi di New York, e riapparse qua e là nel mondo. L’Università di Plymouth, nel Regno Unito, ha usato i social media per rintracciarne gli approdi, ritrovandone 1.467 tra Azzorre, Isole Canarie, Norvegia, Florida e Inghilterra. Lo stato di deterioramento era tale che, dice lo studio pubblicato a metà maggio, avevano rilasciato microplastiche con ferro, rame e titanio. Non proprio ciò di cui il mare ha bisogno.

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