Ancora una volta, lo Stato corre a tamponare buchi e debiti lasciati da altri. È un approccio che, secondo un’analisi dell’autorevole Istituto Bruno Leoni, non garantisce né efficienza, né guadagni, né prospettive di crescita.
Negli ultimi sette anni l’Alitalia è costata ai contribuenti italiani quasi sei miliardi di euro, eppure la compagnia aerea è ancora agonizzante, divisa in una bad company piena di debiti e senza soldi e in una piccola società con pochi aerei e prospettive incerte. Una vicenda disastrosa, che vede lo Stato correre a tamponare i buchi lasciati dalle gestioni precedenti. E che fa il paio con l’ex Ilva, dove l’azienda pubblica Invitalia entra nel capitale del gruppo siderurgico in crisi affiancando l’ArcelorMittal. O con Autostrade, con la Cassa depositi e prestiti che tratta per diventare azionista di maggioranza di Aspi al posto dei Benetton. Tutti dossier che vedono impegnato in prima linea il premier Mario Draghi e il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Il pubblico dilaga nell’economia e il fenomeno si è ingigantito con l’emergenza Covid. Tanto che oggi la Cdp, la Cassa depositi e prestiti, è il singolo maggior investitore nella Borsa italiana.
Siamo dunque alla rivincita del capitalismo di Stato su un’imprenditoria privata debole o poco capace? Alcuni pensano che sia così e sia giusto vedere rinascere una grande Iri sotto le spoglie della Cdp. Altri invece sono preoccupati di fronte a questo attivismo del pubblico e guardano con attenzione al governo di Draghi e alle sue prossime mosse.
Tra questi c’è l’Istituto Bruno Leoni, autorevole think tank che ha l’obiettivo di promuovere, in campo politico ed economico, un approccio favorevole alla libertà di mercato. Un «covo» di liberisti dal quale Draghi ha appena prelevato come consulente Serena Sileoni, vice direttore dell’Istituto. Qual è dunque la linea dei liberisti? Perché difendere la privatizzazione di Alitalia quando ai «bei tempi» della compagnia di bandiera pubblica tutto sembrava andare per il meglio mentre oggi, dopo il passaggio di una serie di azionisti privati, stiamo a raccogliere i pezzi dell’azienda con il cucchiaino? «Vanno fatte due considerazioni» replica Carlo Stagnaro, direttore delle ricerche dell’Istituto Bruno Leoni. «Intanto anche quand’era dello Stato, Alitalia funzionava male: dall’inizio degli anni Novanta a oggi la compagnia è quasi sempre stata in rosso, ha chiuso solo un paio di esercizi in attivo di cui uno grazie a entrate straordinarie. Quindi da 30 anni nessuno è riuscito a far funzionare Alitalia. Uno studio di Mediobanca rivela che dal 1974 al 2014, anno in cui la società fu comprata da Etihad, il costo di Alitalia per lo Stato italiano è stato di circa 7,4 miliardi. Seconda considerazione: se un’Alitalia pubblica produce delle perdite, queste ricadono sulle spalle degli incolpevoli contribuenti, mentre se è privata ricadono, in teoria, sugli azionisti che hanno investito nella società. E poi chiediamoci qual è l’interesse pubblico: avere un’Alitalia nazionalizzata o un buon servizio di trasporto aereo verso le principali destinazioni? La verità è che il servizio di trasporto aereo c’è a prescindere di Alitalia, visto che la compagnia ha una quota di mercato in Italia di solo il 13 per cento». Si potrebbe obiettare che tra un’azienda pubblica che perde e però garantisce i collegamenti con aree poco profittevoli come la Sardegna e una privata che continua ad avere bisogno dei soldi dello Stato alla fine è meglio la prima. Ma Stagnaro non è d’accordo: «Per i collegamenti che lo Stato considera essenziali come quelli con la Sardegna non è necessario scaricare i costi relativi su Alitalia: basta introdurre un sussidio esplicito che può essere preso dalla stessa compagnia o da un altro operatore, purché garantisca quel servizio a un dato prezzo. Avere un operatore pubblico come Alitalia per volare a Cagliari è opaco e irrazionale».
Un altro argomento usato per difendere l’indipendenza di Alitalia è che nessun grande Paese europeo ha rinunciato alla sua compagnia di bandiera. «Non è del tutto vero» risponde Stagnaro. «Abbiamo Paesi come la Francia dove esiste una compagnia di bandiera in senso abbastanza stretto con la presenza dei governi francese e olandese tra gli azionisti, Paesi come la Germania con una compagnia di bandiera di fatto privata in cui è entrato lo Stato in seguito all’emergenza Covid, e Paesi come la Spagna con una compagnia nazionale che però fa parte di un gruppo internazionale, cioè British Airways. Ed è questa la strada che avrebbe dovuto seguire Alitalia. Un’occasione che si è presentata due volte, prima con Air France nel 2008 e poi con Lufthansa nel 2018, e che l’Italia ha perso per ragioni politiche. Se avessimo accettato una di queste due soluzioni oggi avremmo una compagnia di bandiera che non ha più la testa a Roma, ma non ha neppure le mani nel portafoglio degli italiani».
L’Alitalia sarà in grado di andare avanti da sola? La risposta di Stagnaro è scontata: «Negli ultimi 30 anni abbiamo assistito a una girandola di amministratori delegati e di azionisti privati e nessuno è riuscito a cavare un utile da Alitalia. Questo suggerisce che le caratteristiche della compagnia – flotta, contratti di lavoro, dimensioni – impediscano di trarne un profitto, tanto è vero che, fatta la tara dell’emergenza Covid, non c’è stata la fila di pretendenti pronti a fare un’offerta per comprarsela». Come finirà? «Nell’unico modo possibile: il governo traghetterà Alitalia fuori dall’emergenza pandemia e quando il trasporto aereo tornerà più o meno alla normalità cercherà un gruppo internazionale che acquisti la compagnia ormai sgravata dal debito, sempre che la Commissione europea dia il via libera».
Ora spostiamoci su un altro fronte che vede contrapposti i due schieramenti liberista e statalista: le Autostrade, la cui privatizzazione, alla luce della scarsa manutenzione e della tragedia del Ponte Morandi, appare col senno di poi una decisione infausta. «La scelta di dare la gestione delle autostrade ai privati è difendibile» sostiene invece Stagnaro. «Se guardiamo le statistiche sulle performance del sistema autostradale nel suo complesso, c’è un miglioramento: per esempio la sicurezza negli ultimi 20 anni è cresciuta. E l’Anas, che è pubblica, non è esempio di grande efficienza. C’è piuttosto da discutere sulla modalità con cui sono state assegnate le concessioni autostradali: ci sono state troppe proroghe mentre occorrerebbe fare le gare quando la concessione è al termine; il meccanismo tariffario non era trasparente e razionale, solo di recente l’Autorità dei trasporti ha introdotto un sistema tariffario più coerente ai costi e uguale per tutti; per quanto riguarda la scarsa manutenzione della rete, non solo va valutato se il concessionario ha rispettato le regole, ma anche se lo Stato ha vigilato come dovrebbe; poi occorre domandarsi se sia stata una buona idea dare una concessione così grande ad Autostrade per l’Italia, che da sola vale metà dell’intera rete nazionale: forse sarebbe meglio spezzettarla quando arriverà a scadenza».
Invece il caso Ilva rappresenta per Stagnaro il fallimento della magistratura e della politica, visto che contro il gruppo ArcelorMittal si sono schierati non solo i giudici ma anche i governi Conte 1 e 2, creando le condizioni per un ingresso dello Stato, attraverso Invitalia, nel colosso dell’acciaio di Taranto. Mentre per il Monte dei Paschi il direttore delle ricerche dell’Istituto Bruno Leoni riconosce che l’intervento pubblico era inevitabile per scongiurare conseguenze sistemiche sul sistema bancario. Ma detto questo, secondo Stagnaro lo Stato dovrà uscire dalla banca senese. «Diverso il discorso sulla Popolare di Bari, dove l’intervento di Invitalia appare ingiustificato visto che si potevano individuare altre soluzioni».
Oltre a tutti i casi citati, la Cdp ha ottenuto una dote di 40 miliardi per aiutare le aziende indebolite dalla crisi a raccogliere capitali e rafforzare i bilanci. Troppo Stato nell’economia? «Direi di sì, siamo tornati a una situazione simile a quella dell’inizio degli anni Novanta, frutto dell’orientamento politico degli ultimi governi. L’esecutivo di Draghi avrà un orizzonte temporale di uno-due anni e vedremo se in questo periodo la presenza pubblica nell’economia aumenterà o no. Per esempio, come saranno usati i 40 miliardi dati alla Cdp? Per erogare finanziamenti alle aziende in difficoltà o per entrare nel loro azionariato? Sarà questa la cartina di tornasole per capire in quale direzione vorrà dirigersi Draghi».